TRAMA
La relazione di Marianne Sheridan e Connell Waldron nel passaggio dagli ultimi giorni della scuola superiore fino agli anni al Trinity College.
RECENSIONI
Sally Rooney, classe 1991, irlandese. Dopo il fortunato esordio, Parlarne fra amici (2017), il secondo romanzo, bestseller, Normal People (Persone normali nell’edizione italiana, 2018) la consacra fra gli astri nascenti del panorama letterario internazionale. L’editore inglese Faber provò il lancio definendola una “Salinger per la generazione Snapchat”, ma l’etichetta è tanto sciocca e vana – scioccamente giovanilista, vacuamente riferita ad un’icona vuota – che è stata presto dimenticata. Perché Sally Rooney possiede una sua voce, distintiva, e non potrebbe essere altrimenti. Non si spiegherebbe diversamente il successo – e la potenza – di una storia così irrilevante nelle situazioni, largamente unremarkable nella trama. Normal People è la storia di Connell e Marianne, due ragazzi che vivono nella stessa cittadina, Sligo, nella provincia irlandese, frequentano lo stesso liceo e le analogie finiscono qui. Connell è un ragazzo popolare e universalmente amato da amici e insegnanti; Marianne è ostracizzata dai compagni, una solitaria, un’incompresa che non fa nulla per farsi comprendere. Ma quando i due si ritrovano, quasi per caso, a scambiare qualche parola goffa, scatta una scintilla, dapprima inconfessabile al mondo. Attraverso gli anni della scuola e poi quelli dell’università, la storia di Connell e Marianne prosegue per tappe – storia d’attrazione, d’amicizia, d’amore – in un continuo tira e molla emotivo fra due persone che non possono stare distanti eppure non riescono a stare assieme. La differenza la fa tutta la scrittura di Rooney: semplice e precisissima, scevra da congetture lessicali o sintattiche fuorvianti, totalmente abbandonata alla scelta della parola giusta, della virgola più chiara. È così che l’autrice ci concede l’accesso al mondo dei suoi personaggi e lo magnifica, rendendo tangibili e commoventi le loro complessità in un processo di vicinanza emotiva e svelamento psicologico acutissimo. Questo è Normal People.
Partire dal libro sembra necessario per una visione in prospettiva della serie. Sceneggiata con fedeltà al testo dalla stessa Rooney, prodotta dalla powerhouse irlandese Element Pictures (Lenny Abrahamson, Yorgos Lanthimos, Ken Loach e molti altri) e diretta da Abrahmson – prime sei puntate – e Hettie Macdonald – le restanti sei – Normal People si presenta, già sulla carta, come una serie lunga: 12 puntate da circa 30 minuti l’una, per un totale di quasi sei ore di visione. L’imponenza dà il senso dell’epica emotiva del racconto, ma può reggere una narrazione di eventi raramente straordinari, per lo più frammentati nel corso degli anni? È questo uno dei punti – peccati originali? – su cui la serie, già beatificata da un plauso entusiasta pressoché unanime, sembra in realtà dimostrare il fiato corto. L’altro, più essenziale, si manifesta invece fin dall’inizio della prima puntata e rischia perfino di invalidare l’intero discorso. L’errore grossolano, figlio di evidenti necessità di confezione, è la scelta di Daisy Edgar-Jones (peraltro bravissima) nel ruolo di Marianne. Nel libro Marianne è la bruttina del liceo o, nella migliore delle ipotesi, un “tipo”, un’ipotesi di bellezza troppo discreta che necessità di tempo e contesto per sbocciare (cosa che succederà negli anni dell’università). È la brutalità del dato fisico, accompagnato dai comportamenti asociali della ragazza, soggetto alle forze deterministiche del microcosmo di riferimento – un liceo di provincia – che definisce il personaggio di Marianne, i motivi della sua emarginazione e, di conseguenza, l’attrazione indicibile, sia fisica che mentale, che Connell sviluppa per lei. Nella serie, invece, Marianne è carina, molto carina. Nessuno pare accorgersene. È anche un tipo sagace che risponde sprezzante agli insegnanti, eppure non incassa l’apprezzamento dei compagni che, in questa rappresentazione dalle logiche che non tornano, la isolano e criticano per partito preso. Quando inizia la relazione con Connell – i segreti, lo scandalo nascosto, ma anche la sorpresa alla scoperta di un terreno ignoto, detonatore emotivo per il lettore del libro e evento alla base della relazione tormentata fra i due attraverso gli anni – Normal People ci chiede di credere senza sentire, di arrenderci ad una prescrizione narrativa senza necessariamente provare il contrasto dei sentimenti in gioco, aspettative ambientali e pressioni sociali incluse. È l’imposizione allo spettatore di un rapporto forzato rispetto alle immagini: il pubblico è obbligato a credere ciò che la sceneggiatura sentenzia e non a sentire quello che la storia dovrebbe evocare (cioè, il contrario del libro). Possiamo scegliere se appassionarci alla storia di due ragazzi carini che inaspettatamente si innamorano, Normal People è questo, o possiamo rimanerne fuori. (Per inciso: Connell è interpretato dall’esordiente Paul Mescal, un talento da segnare, con una fisicità, una prestanza imperfetta, fedele all’originale e congeniale al racconto).
Lenny Abrahamson (L’ospite, Room, Frank, Cosa ha fatto Richard, Garage) e Hettie Macdonald (Casa Howard, Doctor Who e puntate sparse di altre serie) condividono i crediti di regia e una impostazione di messa in scena corretta, ben confezionata, ma senza picchi né intuizioni. Si potrebbe interpretare come un tentativo di traduzione in immagini dello stile di scrittura asciutto della Rooney, ma se questo fosse il (nobile) intento, il risultato è comunque spesso freddo, preciso nell’inscenare tutti gli elementi messi in gioco nel romanzo, ma senza particolari tentativi di approfondimento. C’è Marianne, indipedenza innata e pari ingenuità, le difficoltà nelle relazioni con i famigliari, la cognizione travagliata del proprio corpo che diventa, consapevolmente, terreno di disputa fra gli uomini che se la contendono, fino all’eccesso dell’auto-mortificazione. C’è Connell, con la sua passività disperante e una sensibilità inedita, forte e vulnerabile, di una complessità profonda e genuina. Ci sono le differenze socio-economiche fra i due, che in una certa misura influenzano e sviano le coordinate del rapporto (Rooney si definisce una marxista et voilà). Ci sono le frequenti scene di sesso, intense ancora una volta per merito degli attori, ma enormemente più convenzionali e certamente meno audaci di quello che la vulgata (la campagna marketing) ci ha voluto far credere. Ci sono le dinamiche dell’adolescenza e della provincia, le aspettative sociali, l’inversione di ruoli e prospettive quando dalla periferica Sligo si passa alla grande Dublino. C’è una rappresentazione – questa sì finalmente fresca e interessante – di un ambiente universitario elitista, quello del prestigioso Trinity College, con i suoi discorsi e le sue pose, che diventa una cornice efficace attraverso il quale monitorare e comprendere l’evoluzione del rapporto fra i protagonisti. Un rapporto che rimane difficile da etichettare, esplorato attraverso le macchinazioni delle personalità in divenire e del desiderio che si fa strada, ma sempre sospeso, senza definizione, fino al pungente finale. Questo punto Normal People lo centra, insinuando che l’impossibilità relazionale dei due nasca dalle limitazioni imposte dal contesto socio-culturale di partenza, la nativa Sligo, con i suoi pregiudizi, le sue aspettative. Prima che essere “personali normali”, Marianne e Connell ambiscono soprattutto ad esserlo. Ma è un’idea di normalità traviata: è la prigione di Sligo, sempre nella testa, da cui fuggono costantemente per poi tornare, con un sospiro di sollievo, a rifugiarcisi.
