TRAMA
Anni ’90. Callum e Sophie, padre e figlia scozzesi, sono in vacanza in una località di mare turca: sembrano stare benissimo, ma in realtà…
RECENSIONI
Keep comin' up with love but it's so slashed and torn
Under pressure, David Bowie & Queen)
'Aftersun' sono le creme doposole, equipaggiamento di rigore nelle lunghe vacanze estive al mare da bambini, un lenitivo reidratante da applicare sulla pelle che regolarmente si ustionava fin dal primo giorno di esposizione eccessiva indisciplinata ai raggi solari. Questa sarebbe una metafora ufficiale, esplicita, palese. Eppure il titolo del miracoloso e densissimo esordio alla regia della scozzese Charlotte Wells mi fa pensare alle forme fosforescenti che si creano sulla retina se guardiamo il sole o una fonte luminosa intensa e restano proiettate sul retro delle palpebre quando le chiudiamo. Immagini brillanti, impressioni di evidenze fisiche oggettive eppure completamente fittizie.
C'è esplicitamente molta autobiografia nella storia di un padre trentenne e una figlia undicenne che vanno in vacanza in un resort di seconda categoria sulla costa turca. È l'estate 1999, un'evocazione particolarmente potente per chi c'era e ricorda quell'estate, le canzoni (Drinkin' in L.A. dei Bran Van 3000, Tender dei Blur, le All Saints, i Chumbawamba, gli Aqua e i Catatonia) e quanto erano pervasive allora e poi quanto sono restate agglutinate al film mentale di quell'anno. Chi c'era ritrova in Aftersun la luce, il peso dell'aria, il modo di abitare il mondo, il tempo in cortocircuito delle estati, i genitori ancora giovani e con tutta la vita davanti anche loro. Lo ritrova perché Aftersun è un film accuratissimo nel rievocare lo spirito di un'epoca e lo ritrova perché lo vuole ritrovare, in parti uguali. Però nessuna operazione nostalgia, nessun jurassic park di un tempo delle mele generazionale: è man mano sempre più chiaro, procedendo nella visione di Aftersun, che qualcosa non quadra, che la trasmissione dalla terra dell'utopia e dell'ucronia è molto disturbata. Quando poi ascoltiamo Tender, canzone antonomasia di un anno, distorta fino a risultare minacciosa, haunting, è già troppo tardi per illuderci: stiamo partecipando all'ultima (?) vacanza di Sophie con un padre amatissimo ma sfortunato e profondamente infelice. Il film dissemina indizi sulle possibili cause del fade out paterno: una patologia psichiatrica? l'omosessualità repressa? problemi economici? tossicodipendenza? Come Sophie bambina/adulta cerca di dipanare l'enigma, lo spettatore viene lasciato ugualmente di fronte all'ineffabilità e all'inconclusione - anche, come vedremo, rispetto al finale. È una opzione di scrittura molto coraggiosa e matura, specialmente per un'esordiente in tempi abituati alla letteralità e alle cose spiegate, e contribuisce ampiamente al miracolo che è Aftersun; tuttavia non potrebbe reggersi senza le straordinarie prove d'attore di Paul Mescal e dell'esordiente Francesca Corio, nelle cui recitazioni trascorrono tutte le anamorfosi, gli scarti e le sovrimpressioni di ciò che sono in tempo reale e della proiezione che rappresentano, personaggi concreti e idealizzazioni. Infatti intuiamo e poi sappiamo che stiamo vedendo una ricostruzione della vacanza ex post (più di vent'anni dopo) da parte di Sophie adulta, tornata a visionare i suoi filmati amatoriali d'epoca per venire a capo del proprio passato.
Chi c'era nell'estate 1999 e la ricorda - la ricorda? - sa che le handycam DV erano diventate molto più economiche, leggere e diffuse e forse possiede una collezione di nastri sui quali è registrata la sua adolescenza e che stanno gradualmente deteriorandosi. Usavamo le videocamere quasi come ora i telefoni, come uno scudo psichico contro l'ossessione di perdere il tempo, i ricordi, la conferma di aver vissuto. Aftersun mostra già dai titoli di testa un collage di film rovinati, pieni di disturbi e glitch. Come le pellicole, i supporti delle registrazioni sono deperibili, soggetti alla corruzione, a degradarsi e svanire, così sappiamo che la memoria è inattendibile. Non soltanto si cancella in occasione di traumi ma normalmente, passando gli anni, la trama viene tarmata, si perdono dettagli, eventi che poi la mente ricuce inventando ricordi plausibili ma contraffatti che tengano insieme le storie che ci raccontiamo per costruire una autobiografia integrale. Le polaroid sfocate che Sophie scatta durante la vacanza sono reali atti dell'adolescente oppure una proiezione fantasmatica del lavoro di recupero spettrale che sta facendo l'adulta?
Mark Fisher ha coniato un motto celebre: "in times of digital recall loss is itself lost". Se è vero per le tracce digitali o digitalizzate, per le traduzioni in byte di testi o porzioni di spaziotempo, non esiste digital recall per gli affetti, per il tempo andato, per i corpi come furono e come erano (quando erano) le persone che abbiamo amato. Aftersun non è un film nostalgico piuttosto un film gonfio di amore e disperazione, della disperazione generata dalla presa d'atto di quanto amore finisce disperso per via delle circostanze, dell'entropia dell'esistere, di come proviamo e proviamo a piegare la forma degli eventi perché si adattino a quella del nostro amore e siamo continuamente risospinti come barche controcorrente e infine scegliamo di fabbricare una realtà parallela con ciò che resta dei ricordi affinché, almeno lì - in quella vacanza in Turchia sul finire del millennio - i conti tornino. Aftersun somiglia a quel momento di Under Pressure in cui la voce effettata e piena di eco di David Bowie ripete "love, love, love" provenendo da un altrove indefinibile dove va a perdersi. Esistono chiare affinità con il cinema di Céline Sciamma nei temi (l'elastico del rapporto genitori-figli - vedi la recente piccola gemma Petite maman, l'esplorazione sbalordita e conflittuale del corpo in mutamento, l'esordio del sesso come nuova dimensione del possibile durante la pubertà in particolare femminile, la giovinezza come futuro spalancato) e nei modi (le ellissi, la sensibilità nel far passare i sentimenti da rapidi primi piani intensi) eppure manca la parte militante che trattiene sempre Sciamma un passo prima dell'esistenzialismo. L'opera prima di Wells non è solo esistenzialista, è un corpo scorticato che si offre esponendosi ai temi più ustionanti dell'esperienza umana: il tempo, l'amore e la loro relazione reciproca.
Le stesse parole chiave (dissolvenza, anamorfosi, distorsione) assegnate al lavoro di scrittura si ritrovano con assoluta coerenza nella cifra registica di Wells - ricordiamo che si tratta di un esordio per ribadire un'altra parola chiave, ossia 'miracolo'. Il film è disseminato di frame che si insinuano tra le scene e non sono raccordi, non sono segni ambientali e non sono neppure immagini simboliche. Cosa sono allora? Sono glitch oppure scarti che emergono dall'estate 1999 ma non trovano collocazione diegetica? Sono frammenti celibi di memoria? Qualsiasi interpretazione si voglia offrire, si tratta di spazi tra le cose, le scene, le inquadrature. Sono insinuazioni che non trovano la serie. C'è qualcosa di dissestato - una collezione di microfratture che si depositano inavvertitamente nella coscienza dello spettatore come microplastiche - disseminato lungo tutto il film che contribuisce al moto psichico procurato da Aftersun. È un film che agisce sottopelle a colpi di bisturi: non ce ne accorgiamo ma i dettagli, le immagini, i riverberi fermentano per esplodere nel finale quando scopriamo quanto profondamente siamo commossi, recisi, disarmati, toccati nei gangli scoperti più profondi e dolorosi.
Il finale in senso stretto è l'immagine ultima, simbolica, quasi certamente fabbricata a posteriori del padre nel corridoio dell'aeroporto che saluta e scompare dentro una sorta di nightclub (lo stesso limbo dove i due poco prima ballavano Under Pressure sfogando tutta la disperazione e la rabbia repressa?). L'apparenza realista cade all'apparir del vero, alla caduta dell'illusione a proposito del potere redentore della memoria. Si tratta in realtà di un finale lungo come il lungo addio o la lunga dissolvenza che il film mette in scena. Si potrebbe dire che Aftersun è un finale che comincia prima dei titoli di testa. Sicuramente è finale l'escursione turistica nella località termale con anfiteatro, il giorno del compleanno di Callum: letteralmente "a perfect day" in cui anche l'azzurro del cielo è irreale. Contro quell'azzurro si staglia la figura di Paul Mescal in dissolvenza incrociata con il suo corpo piegato sul letto della stanza d'hotel mentre piange a dirotto. Il secondo momento è, appunto, la danza sulle note di Under Pressure che conclude la vacanza ma continua in modo sempre più esplicito e perturbante a far coesistere positivo e negativo, la vacanza idealizzata e il rimosso traumatico. Si può essere portati a immaginare che Callum si sia tolto la vita poco dopo. In realtà è un'inferenza inconscia che dà per assodata una possibilità tra tante. Il padre potrebbe essere morto oppure semplicemente scivolato fuori dalla vita di Sophie. All'interno di questo elastico interpretativo, nel finale lasciato sospeso, cala l'estrema mannaia emotiva di Aftersun: comunque sia andata nulla cambia in fatto di schianto e rimpianto, di strazio per non aver potuto amare abbastanza o abbastanza a lungo nonostante le migliori intenzioni. L'indagine sui motivi della scomparsa (e sulla storia paterna tout court) resta inevasa, travolta dall'urgenza espressiva di una ferita non rimarginata, di un amore difficile, di un canto funebre ugualmente indirizzato a ciò che è stato e ciò che non è stato. Aftersun è sicuramente un film sul tempo, sul tempo della vacanza (idillio ma anche tempo identico, in loop, che non avanza ma improvvisamente termina) come ipostasi e metafora e sulla ricerca del tempo perduto come lavoro che ha valore per sé, senza illusioni di resurrezione. Aftersun e In the mood for love sono film diversissimi per storia e stile eppure sono entrambi flashback su un tempo lontano che era acceso dall'amore. Potrebbe recuperare il cartello finale del capolavoro di Wong Kar-Wai che recita "Quando ripensa a quegli anni lontani, è come se li guardasse attraverso un vetro impolverato: il passato è qualcosa che può vedere, ma non può toccare; e tutto ciò che vede è sfocato, indistinto" ed è completato da quello che apre il sequel, 2046, "I ricordi sono sempre bagnati di lacrime". Aftersun racconta una piccola storia privata eppure arriva a toccare le questioni universali archetipiche e, siccome non può offrire consolazioni, offre un atto d'amore. La straniera di Claudia Durastanti, un romanzo con qualche vaga affinità tematica, si chiude con la parafrasi di un motto di Karl Marx: "quando tutto cade, l'amore indomito resta". Per chiosare: "Ma è una storia vera?".