TRAMA
Una stilista di abiti per bambini soffre di una misteriosa malattia, apparentemente incurabile. L’aiuto giungerà sotto forma di una badante filippina che usa antichi metodi di medicina alternativa. Entrambe le donne, tuttavia, nascondono più di un segreto.
RECENSIONI
Se è vero che tre indizi fanno una prova, il terzo film di Lorcan Finnegan, dopo l’eco-horror Without Name (2016) e il fantascientifico Vivarium (2019), definisce in maniera piuttosto chiara l’atteggiamento del regista nei confronti del cinema. Primo: le sue storie devono essere originali, nel senso che il genere cui si rifanno (orrore in primis) deve restare poco più che un pretesto rispetto alla non scontatezza del soggetto. Secondo: la regia deve in un certo senso perseguire una poetica quadrata, misurata, quasi asettica.
Ed è forse “asettico” (nelle luci, nella recitazione, nella perfetta simmetria del soggetto) l’attributo che inizialmente viene in mente nel guardare il terzo lungometraggio diretto da Finnegan (e sceneggiato, va detto, da Garret Shanley, come già era accaduto coi precedenti). A voler imbastire il solito gioco dei riferimenti sembra di guardare a tratti qualcosa di Lanthimos, ecco, forse Il sacrificio del cervo sacro (2017), ma poi invece diventa anche Bong Joon-Ho, Parasite (2019) in primis, e alla fine però è pure in un certo senso Cloud Atlas (Wachowskis 2012), almeno se si ripensa all’episodio “Il Diario del Pacifico di Adam Ewing” (quello con Hugh Grant che avvelenava Jim Sturgess).
Un bel miscuglio di cose, dunque, questo Nocebo, per il quale dunque ci consentiamo di suggerire, tanto per cominciare, una sinossi un po’ più digeribile: è una Mary Poppins filippina, fra l’altro senza lieto fine (altro must finneganiano, a questo punto). Cioè?! Ok, espandiamo un po’: Christine (Eva Green), madre della piccola e antipatica Roberta (Bobs) e moglie dell’autorevole-autoritario Felix (Mark Strong) è una famosa stilista di abiti per bambini, all’apice della sua carriera. In una specie di allucinazione vede un cane zombie pieno di zecche (sic), una delle quali la punge dietro la nuca. Da lì parte un tracollo psicofisico che Christine mal gestisce con l’aiuto di una imponente terapia farmacologica, e viene il dubbio che questa le faccia più male che bene (ecco che il titolo del film diviene un po’ meno enigmatico, ed echeggiano, a ogni sorsata d’acqua e di pasticche, atmosfere à la Cura del benessere, Verbinski 2016). Otto mesi più tardi bussa alla sua porta Diana (Chai Fornacier), presentandosi come la domestica filippina che la stessa Christine avrebbe chiamato per gestire la grande casa di famiglia, ma di cui quest’ultima non si ricorda. Diana è premurosa e porta in casa le tradizioni della sua terra lontana, iniziando ad aiutare Christine con forme di medicina alternativa (ricordate la Mary Poppins filippina? Basta un poco di zucchero e la pillola va giù!), che sembrano in effetti inizialmente funzionare, salvo poi nuovamente far capitolare la stilista in un incubo di visioni truci (addirittura un passaggio di incubo nell’incubo nell’incubo, una paralisi del sonno con mise en abyme e insettoni stile Il pasto nudo, Cronenberg 1991) e crisi isteriche. La sta veramente aiutando, oppure in realtà contribuisce a renderla più malata? E le medicine che prende? Insomma, un Effetto Nocebo dietro l’altro, fino a quando scopriamo che Christine è sostanzialmente una donna di merda, ben contenta di far produrre i propri abiti di marca a donne sfruttate nelle Filippine, e Diana, che proprio in una di quelle fabbriche-prigioni aveva lavorato, è venuta apposta per ottenere la sua vendetta, finanche manipolando la figlioletta Bobs (e di nuovo torna l’impianto MaryPoppinsiano). Ah, e forse è una strega. Sul finale, capirete, per ora mi sono tenuto vago, per non rovinarvi la visione.
Così Nocebo è chiaramente un horror, con tanto di sequenze splatter e perturbazioni visive di vario genere, ma soprattutto è qualcosa di più. Un revenge movie senz’altro, dal momento che Diana porta a casa di Christine la sua rappresaglia, ma anche e più largamente un film profondamente politico, giacché l’irrisolto fra le due donne non può che essere letto come il particolare di un più ampio conflitto di classe, su cui si impernia in realtà tutta la sceneggiatura, sin dall’inizio: la grande magione dove i coniugi vivono è il frutto di un arricchimento ingiusto, previa sfruttamento di manodopera a basso costo che la stessa Christine, durante un’ispezione proprio nelle Filippine, tratta alla stregua di schiavi; quando Diana arriva i due coniugi si illudono, in varie occasioni, di poterla mettere a tacere con il denaro; e così via. E, va detto, la sceneggiatura appare qui perfettamente, o, per tornare all’attributo iniziale, “asetticamente” blindata. Capiamo solo alla fine che Felix, quando Diana gli si presenta, conosce le Filippine perché evidentemente ci è stato durante qualche viaggio di lavoro di Christine. Leggiamo solo ex post che la battuta “questa casa è mia” che lo stesso rivolge a Diana, turbato dalla di lei intrusione nelle mura domestiche (una versione al maschile della Jennifer Lawrence di Madre!, Aronofsky 2017) è carica di prepotenza coloniale. Ma soprattutto, alla fine riusciamo perfettamente a posizionare la moralità di Christine, già enigmaticamente manifestata quando interrogata da Diana su chi le cucisse i vestitini per bambini risponde, con la massima meschinità, “i miei piccoli aiutanti”.
Se dunque in Vivarium già era presente sottotraccia una dimensione politica che si estrinsecava attraverso una concezione non banale della maternità, qui ancora più fortemente sembra di guardare un film che dietro la sua apparente piattezza mette in scena un conflitto matriarcale, in cui i ruoli dei mariti (di Christine e, attraverso i flashback, di Diana) sono ridotti a pura impotenza, e che pretende di raccontare in realtà un più complesso scontro di potere. La chiave horror è puro tramite per un discorso sociale, come nei migliori casi di film di genere (pensate, per andare allo sci-fi, a District 9, Blomkamp 2009, al grande film che è e a quanto povero sarebbe invece se non lo si interpretasse come una metafora sociologicamente orientata). Così qui l’elemento paranormale in un certo senso serve a dirci che non serve, e alla fine giustifica la triste ciclicità degli abusi di cui il film tratta.
E per chi non vuole spoiler la recensione può finire qui. Per chi invece l'ha già visto, o solitamente decide se leggere i libri occhiando l'ultima pagina, lasciamo una chiosa finale, preceduta da questo ALLARMISSIMO SPOILERISSIMO: Diana infine, morente suicida, lascia in eredità a Bobs il suo potere magico, se si sceglie la pista esoterica, o il suo trauma, se si sceglie quella realistica. È un lascito oramai pienamente globalizzato e transnazionale (la leggenda finora era pienamente incardinata nel folklore filippino, mentre qui passa al mondo occidentale). Il trauma come dono o come maledizione? Questo sarà proprio Bobs, per ora “innocente” e incolpevole bambina, su cui pesano le aspettative del futuro di tutti, a deciderlo.
