TRAMA
Parigi 1968: Theo e Isabelle, fratello e sorella, rimangono soli a casa mentre i genitori sono in vacanza. A loro si unisce Matthew, un giovane studente americano…
RECENSIONI
The Dreamer(s)
Il primo Dreamer della situazione è senz’altro Bernardo Bertolucci, il quale parla del film che sogna di aver girato ma che, evidentemente, è rimasto tra le braccia di Morfeo. Nelle interviste o nelle conferenze stampa, infatti, il Nostro non manca di ripetere che il suo film è pensato per spiegare il ’68 ai giovani d’oggi che (ovviamente) non c’erano o che comunque non sanno e per rivalutare positivamente un periodo vittima di troppi errori storici; difficile cogliere il senso delle parole del regista dopo aver visto il film. In The Dreamers, fortunatamente, non c’è (quasi) nulla di didascalico o anche solo vagamente “esplicativo” e la Storia è confinata sullo sfondo, a influire sì su comportamenti, pensieri e amori (il clima di liberazione sessuale che incoraggia ed estremizza le ambiguità sentimentali fratello-sorella, l’implicita ammissione di inadeguatezza dei genitori nei confronti del mondo altro dei figli e così via) ma senza mai venire allo scoperto e senza esporsi a giudizi univoci o considerazioni oggettive. In primo piano è invece il singolare ménage à trois dei protagonisti, borghesissimi cinéphile chiusi in un appartamento ad “esperire” amicizia, amore, innocenze perdute, casti incesti e giusto un pizzico di politica esplicita; due sole volte i protagonisti affrontano direttamente tematiche sessantottine: quando parlano del Vietnam e quando Matthew rimprovera a Theo il suo impegno politico superficiale che sottende egoismo e disinteresse di fondo. Il resto si snoda tra verginità perdute per gioco, crudeli penitenze e morbose atmosfere à la McEwan, fino a un epilogo, quello sì, un po’ didascalico e tirato via che rischia di liquefare in una manciata di secondi il personalissimo e “sospeso” mood abilmente costruito in 130’ di pellicola. Il film è infatti splendidamente fotografato da Fabio Cianchetti, ha un décor perfetto, efficace specchio espressionista delle anime dei protagonisti, è molto ben recitato dai giovani Michael Pitt, Louis Garrel e Eva Green ed è girato benissimo da un Bertolucci in stato di grazia, che regala elegantissimi e sinuosi movimenti di macchina indagatori e primi piani che rimangono impressi nella memoria per poi abbandonarla molto lentamente. Amore per il Cinema profuso a piene mani e quasi tutto delegato ai personaggi del film che ricordano, giocano, sognano insieme a Godard, Hawks e Buster Keaton, con una importante eccezione: nell’ultimo, cinefilo montaggio alternato la Mouchette di Bresson appare evidentemente inserita dal grande venditore di immagini che irrompe nel racconto in prima persona con una metalepsis genettiana e apre un ventaglio di spericolate interpretazioni: la perdita dell’innocenza/verginità di Isabelle va re-interpretata dunque come una violenza? E perché Bertolucci, a differenza di Bresson, salva in extremis la sua eroina? È una sincera voglia di lottare per un mondo migliore che (ri)dà la voglia di vivere o lo scendere in strada a erigere barricate fu (è?) per molti solo un raccontar menzogne a se stessi, una pavida fuga nei massimi sistemi per sfuggire apatia, mal di vivere e tormenti interiori?
La purezza della scabrosità
L’Io narrante di Matthew/Bernardo inocula la cinefilia contratta con Il Corridoio della Paura (i suoi pochi secondi a colori) alla Cinémathèque Française (in apertura come in Baci Rubati), la libidine del voyeurismo che, come il grande schermo, scherma dal mondo. Nel ’68 i sognatori tentarono di sfondare la tela con una molotov e il libretto rosso di Mao, abbracciando violenza e omologazione e vanificando la forza dell’amore e dell’incontro delle diversità: l’americano medio(cre), sedotto e abbandonato dalla ribellione di Bande à Part, si vede costretto a voltare le spalle ad un parto gemellare che, pur rivelandosi morboso, ha permesso l’incontro di Nicholas Ray con la Nouvelle Vague, ai rapporti interpersonali di rivoluzionarsi Fino all’Ultimo Respiro, fra le mura domestiche invece che per le strade. Se Bertolucci (si) confonde con l’apporto allegorico del doppio e pecca di programmaticità, lo sguardo è contagiato dalla fisicità delle muse francesi, gli esordienti figli d’arte Garrel (padre Philippe) e Green (madre Marlene Jobert), rispettivamente nei ruoli di Jean-Pierre Léaud e Jeanne Moreau. L’imperturbabilità del primo, il sofisticato erotismo della seconda (culminante in un’indimenticabile Venere di Milo) e gli imbarazzi faceti di Pitt (la foto sul membro!) donano a questo Jules e Jim marpione (Bertolucci stimola, rinviene, ma più spesso fomenta i pruriti) l’insperata freschezza di Io Ballo da Sola, senza la decadenza dell’Ultimo Tango a Parigi. L’ottima idea “musical” dei diegetici insert cinefili si perde per strada, ma si è ripagati dal gioco seduttivo di un cinema che si specchia nel personaggio di Isabelle, smaliziata affabulatrice che manifesta (durante la sconcertata scena della deflorazione) una passione tangibile e la purezza della scabrosità (le penitenze agli indovinelli ne toccano l’apice), almeno fino alla fine dell’innocenza, quando c’è da scegliere fra le campane di vetro e la crescita, fra il gioco e il mettersi in gioco, fra la morte di Mouchette e la vita capace di amare l’altro da sé.
The Dreamers come metafora del cinefilo
Prima ancora che fosse proiettato a Venezia, The Dreamers ci veniva presentato da ogni chef mediatico con la stessa stancante salsa: "la personale visione del '68 dell'autore".
Ma il '68 serve a Bertolucci soltanto come antitetico pretesto da contrapporre al modus vivendi cui indirizza realmente la sua attenzione. Mentre la massa si mobilita per cambiare il mondo sacrificando i desideri più individuali(sti) sull'altare di ideali "reali" e comuni, una bande à part composta da tre ragazzi si muove seguendo la luce riflessa del cinema, intenta, nella clausura di una centralissima casa borghese parigina, a riprodurre ritualmente gli atti del cinema scambiandoli per vita, non solo vera ma pura, trasfigurandosi nella bellezza dell'arte. L'intima quotidianità di questa messinscena riservata solo agli attori non permette al mondo esterno di "sfondare lo schermo" del loro gioco coatto: in stanze sature di specchi deformanti e narcisisticamente inebrianti, si sancisce il massonico patto finzionale tra gemelli reali o acquisiti, incatenando indissolubilmente gli uni agli altri.
Qualcuno ha lamentato (il sottoscritto in primis) una sensazione di artificioso e precostruito nel giustapporsi di azioni e gesti dei protagonisti, un retrogusto di macchinoso e schematico nella dinamica narrativa che raffredda la partecipazione emotiva alla storia. Ma cosa sono questi maniaci cinefili se non replicanti proiettati nel mondo degli umani che si muovono secondo programmi (film) inseriti da ignari prometei? O zombie che per vivere hanno bisogno del sangue di celluloide dei loro modelli (dis)umani? Come Madame Bovary il cinefilo comincia a sentire inadeguata la propria esistenza nel momento in cui entra epifanicamente in contagioso contatto con il "romanzesco": così ogni atto insignificante plasmato da un artista appare necessario e affascinante, il dramma più orribile si tramuta in est(a/e)tico godimento, un dialogo occasionale in cellula costitutiva del proprio armamentario dialettico.
La protesta studentesca prende quota; l'amico americano spezza l'ingranaggio "meta" ma non prima che la meta-stasi abbia contaminato i due "cinephiles" : The Dreamers si chiude coerentemente con gli umani che sfilano anonimi attraverso le notturne strade parigine mentre i gemelli "sfondano lo schermo" portandosi dietro i bozzoli della loro mutazione fotogrammatica: agguantano romanzescamente un paio di molotov e aggrediscono lo spazio passando di barricata in barricata come di sala in sala, lasciando indietro il resto; e lasciando noi col dubbio se sia più sognatore chi vuole cambiare il mondo reale o chi vuole crearne uno immaginario.