Drammatico, Focus, Horror, Netflix, Recensione

MIDSOMMAR

Titolo OriginaleMidsommar
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2019
Durata147'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

La sorella bipolare dell’universitaria Dani uccide i loro genitori e si toglie la vita. Mesi dopo, per non rimanere sola Dani si aggrega a Christian, il suo ragazzo, e agli amici di lui per prender parte a una festa tradizionale svedese, che si svolge ogni novant’anni e ha luogo nella bucolica comune pagana di Hårga. Le usanze degli abitanti, però, si dimostrano particolarmente bizzarre, e il loro comportamento nei confronti degli ospiti si fa via via più inquietante.

RECENSIONI

Al secondo film, Ari Aster scombina già le carte della propria (presunta?) autorialità, tornando su alcuni temi/stilemi, introducendone di nuovi, facendone emergere con maggior chiarezza altri. Cercando di andare con ordine, ma non è semplice, iniziamo col dire che, al pari di Hereditary, Midsommar si presenta sotto le mentite (?) spoglie di un normale film drammatico. Non più incentrato sulla famiglia (rapporto madre figlio, ereditarietà delle colpe genitoriali) ma, nello specifico, sull’elaborazione del lutto e sul rapporto di coppia tra twentysomething. In entrambi i casi, l’apparente appartenenza a un genere è molto credibile. Entrambi sono bei film drammatici, misurati, eleganti, ben scritti e ben recitati. Ma c’è già un “però”. Midsommar sembra, in qualche modo, parimenti serio ma forse meno serioso. Sottotraccia, fanno capolino i prodromi di un’ironia che, come vedremo, diventerà progressivamente più presente, pulsante, arriverei a dire importante, (perché) nuova, per l’economia del film. Tutto il campo/controcampo (effettivo e figurato) che tratteggia l’asimmetrica liaison tra Dani e Christian ha più di un tratto da commedia sentimentale: il modo in cui Christian tiene i piedi tra le due staffe amici/fidanzata, il percorso rocambolesco che porta Dani a unirsi al viaggio in Svezia, Pelle che “ci prova” con la fidanzata dell’amico, sono tutte situazioni cinematografiche che destabilizzano, perché stridono, più o meno impercettibilmente, con la drammaticità di fondo. Il Perturbante è già lì, ab initio. Elementi difficili da collocare organicamente, come il primo piano a stringere sul volto del cadavere della sorella di Dani, che si è suicidata col gas ma sembra più una vittima sfigurata della Sadako di The Ring.

Nella seconda parte del film, le cose si complicano ulteriormente, o meglio, si contaminano. Aster sembra, da un lato, scoprire le carte, dall’altro mescolarle. Le sue intenzioni appaiono evidenti, sia quelle – diciamo – poetiche che quelle meramente narrative. Midsommar palesa la propria progettualità: un horror anti-horror che viola sistematicamente tutti i canoni del genere, dall’ambientazione bucolica e perennemente soleggiata, all’assenza di suspense classica o di sorprese, per riferirsi al canone hitchcockiano. Il film ha un percorso, in definitiva, lineare, da A a B, e la linea che segue è sostanzialmente retta. Lo spoiler contenuto nel goffo e sciagurato sottotitolo italiano, Il Villaggio dei Dannati, che cita a sproposito il film di Rilla del 1960, non fa molti danni. È il film stesso che si autospoilera da solo. E lo fa in due modi, uno implicito, l’altro più esplicito e autoreferenziale, a diversi livelli. Implicitamente, sappiamo benissimo che questo viaggio europeo dei giovani americani finirà in tragedia. È tutto molto prevedibile, (già) scritto e già visto. La storia è un – piuttosto canonico - crescendo di inquietudine (sul quale torneremo) e i riferimenti cinematografici evocati, più o meno evidenti (The Wicker Man, Hostel), sono tutti sensi unici. Ma il film contiene anche anticipazioni molto più precise e circostanziate, che sanno già di marchi di fabbrica. In Hereditary, Ari Aster affidava a delle miniature il compito di fare da contraltare meta-rappresentativo alla narrazione, in Midsommar, che pure contiene inquadrature che ricordano le citate case di bambole (alcuni totali del dormitorio), ci sono disegni e murales quadro-nel-quadro che anticipano con esattezza quello che succederà. La prima immagine del film è una raffigurazione pittorica che svela, con ottima approssimazione, tutto l’intreccio. Appena i ragazzi arrivano nella Comune, un carrello laterale da destra a sinistra illustra degli arazzi che raffigurano nel dettaglio il destino di Christian (pelo pubico nel cibo incluso), il quale Christian si troverà vis a vis con la propria morte raffigurata su una parete, e poi riprodotta alla lettera nel finale nel film (l’orso in fiamme).

C’è però una caratteristica di Midsommar della quale si è già parlato ma che merita di essere approfondita. L’ironia. Si è parlato di un crescendo di inquietudine, mano a mano che i ragazzi si addentrano nei meccanismi perversi della comunità/setta. È vero. Ma è altrettanto vero che, di pari passo, emerge con sempre maggior forza il lato grottesco, ferocemente umoristico del film. Lo zenit e insieme l’emblema di questo compenetrarsi tra comico e drammatico/horrorifico è il suicidio rituale che, di fatto, apre gli occhi (a personaggi e spettatori) sulla reale natura della comunità (e del film). Si tratta di una sequenza piuttosto lunga, giocata sui silenzi, che da un lato riesce a creare una strana forma di doppia suspense (immaginiamo come “andrà a finire” ma sembra troppo scontato e si attende l’imprevedibile – che invece non arriva -), dall’altro inquina l’attesa con deviazioni imbarazzanti virate al comico (i vocalizzi dei due suicidandi, ad esempio, ma anche la recitazione, la mimica hanno qualcosa di parodico e subliminalmente demenziale, tra Mel Brooks, ZAZ e i Monty Python). Scrivo imbarazzanti (nel senso di “vorrei-ridere-ma-sembra-brutto”) perché quello che Ari Aster era riuscito a fare, almeno fino alla fine di questa sequenza, era stato farci sentire – al pari dei ragazzi protagonisti - estranei ma curiosi, e in qualche modo timidamente rispettosi del comportamento e delle usanze dei fricchettoni svedesi. Non sarà più così, invece, dopo l’epilogo splatter di questa sequenza: il ralenti sul cranio della donna che si apre dopo l’impatto con la roccia, l’uomo “scomposto” ma sopravvissuto alla caduta, al quale fracassano il volto a martellate. Quello che una volta si chiamava pugno nello stomaco. Un’esplosione di violenza così dettagliata da diventare sospetta. Segna, possiamo dire, il definitivo scollamento tra spettatori e personaggi dei quali, da lì in poi, sarà impossibile condividere molte (tutte le?) scelte di sceneggiatura, prima fra tutte quella di non andarsene nonostante tutto. Con tutto quello che questo comporta anche in termini di empatia spettatoriale, diciamo.

Il tono, da quel momento fino alla fine, sarà sempre più grottesco, eccessivo, col ridicolo volontario che permea tutto il film senza però lasciarsi afferrare, isolare, analizzare. C’è da ridere? Si può/deve ridere? Anche perché, da un punto di vista cinematografico, il film è in realtà molto composto, misurato, elegante. Nelle inquadrature geometriche, nei movimenti di macchina, nei campi/controcampi di simmetria kubrickiana. Ma anche nell’utilizzo del montaggio parallelo che, di nuovo, esplicita la natura multiforme e ambigua del film. Un esempio su tutti: la sequenza dell’accoppiamento tra Christian e Maja, presentata come un goffo rito orgiastico di fertilità/gravidanza, in cui al rumoroso “orgasmo collettivo” fa da ipotetico controcampo alternato la partecipazione delle ragazze al dolore gridato di Dani, che ha appena spiato la scena. L’epilogo della sequenza chiarisce e cristallizza l’ambiguità umorale di Midsommar e il coraggio del suo regista. Al termine dell’amplesso, Christian fugge via impaurito, spaesato e lo spettatore viene sballottato su vertiginose montagne russe emotive. L’immagine di quest’uomo nudo che corre senza meta mobilita più di topos comico (si pensi anche alla gamba capovolta che vede spuntare in mezzo ai fiori) ma il primo full frontal mostra un dettaglio inusuale e spiazzante: Maja era vergine e Christian ha il pene sporco di sangue. Un contenuto grafico del tutto estraneo al cinema mainstream, una scheggia impazzita che si conficca nei multisala.

Un film complesso, quello di Aster, in perfetto equilibrio tra l’essere ricco di significati e il non significare nulla. Il folklore, il paganesimo, l’elaborazione del lutto, la vulnerabilità che accompagna e segue l’elaborazione del lutto, il rapporto di coppia, la fine drammatica e vendicativa di una relazione, sono tutti temi e/o chiavi di lettura valide ma tutte insufficienti, inadeguate. Perché c’è sempre qualcosa che sfugge, che ha bisogno di essere in qualche modo rivisto, ripensato e ricollocato altrove. E, come sempre, in quell’altrove c’è proprio il Cinema che ci piace di più.

Midsommar è un film sulla coppia, come Hereditary era un film sulla famiglia. La prima parte ci presenta il rapporto a due nella sua fase patologica, la condizione sbilanciata dei protagonisti che trascinano la loro storia, di fatto chiusa da tempo: da una parte la dipendenza di Dani (una Florence Pugh che lascia il segno: che straordinario direttore d’attori è Ari Aster), che si aggrappa letteralmente al partner, che richiede da lui rassicurazioni, certezze, aiuto psicologico; dall’altra parte la passiva indifferenza di Christian che è succube di questa dinamica, incapace di ribaltarla. Conscio che la relazione è morta, il ragazzo non riesce a compiere il passo decisivo (liberarsene), anzi, di fronte all’improvvisa tragedia che travolge la vita della ragazza, si sente ancor più vincolato perché la sua non appaia come una ritirata vigliacca e inopportuna, facendo mancare a Dani quel soccorso, alla cui prestazione il suo ruolo sembra essersi ridotto, proprio nel momento in cui è più necessario.
Se in Hereditary il tema demoniaco tracciava la strategia narrativa che traduceva in chiave orrorifica il discorso dell’ereditarietà del trauma familiare, allo stesso modo, in Midsommar, l’esperienza che i due protagonisti vivono in Svezia (la patria di Ingmar Bergman, di un cinema che la crisi della coppia l’ha radiografata come nessun altro) può essere vista come la visionaria e truculenta traduzione in salsa folk horror (o di horror vacanziero, come Hostel) del dramma del distacco, dell’addio, della rottura dell’unione, complesso come un metaforico rito (tanto per usare ancora un titolo bergmaniano, ma ci torno), simbolico come il racconto di un sogno, travagliato come l’elaborazione psicologica che presuppone.

Così possiamo leggere tutta la vicenda come un’allegoria, nella forma di un’allucinazione, possibilità a cui il film allude a più riprese (pensiamo solo all’uso delle droghe), a cominciare da quel ribaltamento della macchina da presa durante il tragitto in auto che conduce la brigata verso il villaggio: quei secondi in cui la strada ci appare sottosopra suggeriscono l’entrata in una dimensione narrativa alternativa. Così come onirico ci appare il primo approccio della comunità da parte di Dani, con quello zoo umano perfettamente coreografato che si muove sincronico nella vallata mentre l’ossessiva melodia dei flauti (suonati da un terzetto che ha movenze quasi ridicole) funge da stralunata, parodica colonna sonora. Una scena precedente, apparentemente interlocutoria, mi pare decisiva per suffragare questa ipotesi: all’annuncio che Dani partirà con Christian e i suoi compagni, Pelle mostra alla ragazza delle foto della festa di mezza estate (la più importante del calendario svedese, più del Natale) per come si svolge nel suo villaggio, destinazione finale della spedizione; la ragazza rimane colpita dalle immagini e dai costumi, un’impressione che potrebbe portare tutta la parte svedese su un piano di mera proiezione mentale, un piano nel quale il dato reale, documentato da quelle fotografie, viene intimamente rielaborato, e poi amplificato in termini visionari e allucinatori.
Come Hereditary, allora, Midsommar è un’opera double-face: in essa il genere può essere visto come strumento per trattare un tema forte o, al contrario, come suggeriva Pelleschi, il tema forte può essere inteso come materia per praticare dell’horror puro (da cui il discorso sul palindromo concettuale, come dalla scheda del film precedente, a cui vi rimando): da qualunque lato lo si guardi, Aster, attraverso il perturbante (il mix tra la soavità scenografica e l’agghiacciante sequenza degli eventi, un orrore che rinuncia al buio ed è tutto alla luce del sole), lascia allo spettatore offuscati passaggi di senso che si rivelano altrettanti spazi speculativi che forniscono argomenti a entrambe le letture. E lo fa con un film di inusitata potenza grafica, in cui abbondano i piani frontali e non si ricorre a effetti speciali - ad alimentare il corto circuito tra realtà e visionarietà -, di scrittura densa e tempi coraggiosamente dilatati (perché più che sulla paura, Aster lavora su ansia e angoscia). E in cui si osa molto anche sul piano della rappresentazione (quella parte finale in quale altro film mainstream troverebbe asilo?).

Ritornando al piano che mi affascina di più, quello di Midsommar come film sulla coppia (accanto a quella protagonista convive una serie di situazioni specchio: la coppia di genitori uccisi dalla figlia e dall’eredità di chissà quale trauma; la coppia incontrata in Svezia, che funziona e che viene sacrificata; la coppia di anziani che pone una fine deliberata al suo sodalizio), mi viene da associare questo lavoro ad altri due che hanno trattato la stessa questione in maniera deviata, sondando le possibilità offerte dal cinema di genere e piegandole ai proprio scopi: Antichrist di Lars von Trier e Vinyan di Fabrice du Welz, film che già all’epoca definii gemelli per il modo in cui dialogavano con l’horror per dire della tragedia di due coniugi: il bosco di Antichrist, la giungla di Vinyan e la valle di Midsommar sono panorami mentali nei quali si inscena il dramma simbolico della coppia.
Parlando di Hereditary feci riferimento a L’ora del lupo: continuo a pensare (e l’ambientazione svedese di quest’ultimo film, lo ribadisco, per me è significativa anche per questo motivo) che il Bergman più oscuro e inquietante sia il vero riferimento forte del cinema di Ari Aster. Prima di Polanski e di Lynch, tanto per fare i nomi più citati (del resto l’assalto del demone in L’ora del lupo non è già Lynch prima di Lynch?).

Riassumendo brutalmente questo singolo filo.
Prologo (d’intensità pazzesca): si tracciano le caratteristiche della coppia disfunzionale per la quale lo stare insieme non risponde a nessuna progettualità (Pelle a Dani: «Ti senti sostenuta da lui? Ti senti in una famiglia con lui?»), ma si regge sul bisogno reciproco di colmare lacune emotive, curare ferite interiori, disinnescare tensioni familiari e su un’automatica, acritica aderenza a modelli di comportamento (christiani?).
Svolgimento: mentre Dani viene corteggiata da Pelle ed è sempre più evidente il distacco di Christian (che non si ricorda del compleanno della ragazza - un topos -), la situazione precipita allorquando il ragazzo la tradisce.
Conclusione: la scoperta del tradimento getta la ragazza prima nella disperazione, poi la conduce alla presa di coscienza, all’accettazione e al sacrificio: quello di un’immagine, di una sicurezza, di un desiderio. E di un legame tossico. Il fuoco a cui Dani destina Christian è quello della catarsi finale. Dani è riuscita a porre fine al rapporto, e a pervenire a un’intima rinascita: la ragazza - prima solo spettatrice passiva, adesso maestra di cerimonie - può finalmente sorridere alla vita che verrà.

Le cose dell'amore

Ari Aster è uno che ci crede. Uno che ci crede davvero, virtuosamente, con quella gran dose d'impudenza e temerarietà che avvince ogni innamoramento spudorato, ogni fede scellerata, preda dell'assolutismo e incurante del ridicolo. Ci crede, nonostante sappia che credere al cinema dell'orrore, oggi, equivale a lottare due volte più duramente per difenderne dignità, nobiltà e complessità dalle smaliziate spinte meta, dai riflessi incondizionati del metaforone, dalla divergenza severa fra il gadget industriale che ricicla codici usurati e l'opera autoriale che accede al genere pretestuosamente, sfruttandolo come trampolino per dirsi altro. Per Aster l'horror è un linguaggio liberatorio che va liberato, e se in Hereditary - Le radici del male ne carezzava le norme, riavvolgendone i vizi intrinsechi, trastullandosi a esasperarli, lavorando fra l'attonito e il giullaresco sul loro sformarsi perturbante, dando già tutto al solo esordio, con Midsommar - Il villaggio dei dannati apre un'altra porta sul genere e, pur non abbandonando la goduria della forma e la sua introspezione fra il serio e il faceto, scopre una crisi.
Midsommar è un'opera seconda che è già un punto di non ritorno; è un'altra lettera d'amore, un altro tour guidato su una poetica inquadrata, un'altra personale (auto-tutto: autoriflessiva, autocitazionista, autoterapeutica, autoparodica) che stavolta dice però di un amore insufficiente, di un mondo che non basta più. E che va sostituito con uno nuovo: un po' quello che fa la sua protagonista Dani Ardor (nome neutro come topos comanda & nomen omen, con eloquente assonanza: Ari/Dani, Aster/Ardor). Midsommar è la storia del suo risveglio, dentro (e grazie a) un incubo, il resoconto di un cambio di prospettiva, del prender atto di un'intima dissonanza rispetto a una realtà prefissata e a un sentimento sterile, consumato, da ripensare e riordinare su misura di una grandiosa epifania finale, che smonti il desiderio esclusivista verso il proprio oggetto d'amore: Dani è visceralmente attaccata al fidanzato Christian, in reazione a un trauma atroce che però sta acutizzando lo squilibrio fra la sua postura relazionale (esigente, totalizzante, ardente) e quella di lui (evasiva, manchevole, sfuggente); Ari, che brama la consacrazione ufficiale a reuccio genialoide dell'horror - e a buon diritto -, è in missione appassionata, nevrotica, insistita per agguantare un'iconicità, un segno, da cult definitivo, finale.

L'elemento del finale e del definitivo innerva tutto Midsommar, che parte lì dove Hereditaryfiniva: da una strage familiare, con l'aggiunta qui di una superstite, Dani, divenuta effettiva final girl ancor prima dei titoli di testa, marchiata dal trauma, da un orrore che nella sua oscenità va rinchiuso, taciuto, addomesticato in solitudine, nel privato, in un bagno o in una stanza chiusa, relegato al sonno, agli incubi.
Da parte sua, all'inizio di Midsommar Ari è già "final auteur": ha già consegnato il bigino tematico (The Strange Thing About the Johnsons, cortometraggio dalla sua tesi di laurea), il capolavoro-summa (Hereditary), e ora è al testamento, alla gita terminale nella propria poetica. Eppure né Dani né Ari vogliono arrendersi, lasciar andare, perdere il controllo: è lo spazio extra-terrestre della comunità svedese Hårga che, nel suo essere fuori (fuori dalla normalità e dalla realtà ordinaria per la protagonista, fuori dai canoni del genere - incubo sempre alla luce del sole - per il regista, fuori dall'esistente per noi), si fa specchio ribaltato delle cose dell'amore e dell'orrore, rimandando a Dani/Ari le stonature delle proprie ossessioni, rivelando loro un'inadeguatezza.
Ad Hårga, Dani arriva con tutti i buoni (terrorizzati, insicuri) propositi di non mettere a rischio il legame con Christian, unica àncora rimastale. Ma Christian è simbolo dell'anaffettività di un sistema, quello occidentale, narcisista, fallocentrico, monoteista, e indefesso produttore di malattie dell'anima (come quella di cui soffriva la sorella suicida-omicida di Dani), di repressione e di vergogna (del dolore, del sesso), e di un massimo tabù indicibile (la morte); mentre Hårga è il suo negativo, un'alternativa amorosa. Hårga cammina al contrario: è un satellite pagano, nascosto, virato al matriarcale, che dipinge festose truculenze, contempla la morte da vicino, onora la carne e la natura, le benedice; e dissacra, compenetra, espelle e spurga con empatia sovraesposta, letteralmente sfrenata. A vigere nel villaggio è l'opposto delle leggi che avevano fino ad allora imbrigliato Dani: la possibilità di uno sfogo delirante, di una scomposta compartecipazione, la concezione di un corpo liberato dalle catene della decenza ed elevato nel suo carattere deformante, l'idea della morte come rituale contemplato e desacralizzato, con la carne incitata a spappolarsi e la voce che si disfa in versi gutturali, disagianti, imbarazzanti fino al ridicolo, al demenziale.
E ad Hårga, Ari non può che declinare al ridicolo e al demenziale, al posticcio, ogni momento orrorifico: la coppietta senile spiaccicata, il ragazzetto sfigurato, quello appeso a mo' di composizione hannibalecteriana, la gamba che spunta dal giardino sono scarti di un trip allucinogeno, protesi ineludibile del genere ma in fin dei conti trastulli, dazi da pagare.

The broken are the more evolved

Con gradualità, il villaggio si fa manifesta estroflessione dei bisogni sistematicamente repressi da Dani - regrediti a uno stadio infantile, inconsulti ed egoistici, capricci, giochini e finzioni ("la regina di maggio") -: Hårga se ne sta chiusa in una foresta, protetta dall'esterno; Hårga punisce inflessibilmente chi non rispetta le regole che la tengono in vita (l'albero ancestrale), e Hårga riassorbe in sé coloro che vorrebbero fuggirle, raddrizzandoli, svuotandoli, ricomponendoli, facendone pupazzi, fantocci da manovrare, consacrare, mantenere inoffensivi, mantenere con sé e in sé (come Christian, infilato nella pelle di un'orso, teddy beararso vivo nel cuore di Hårga e di Dani).
Prima di questo ritorno allo stato di bambina, di piccola carnefice inconsapevole, Dani ha diligentemente contraddetto le specificità della sua figura di partenza, della "finalgirl-ness": vergine non è certo (benché stress e catatonia escludano qualunque desiderio, compreso e forse primo in lista quello sessuale), inoltre beve, si droga (pur senza troppi frizzi e lazzi) e al posto di sconfiggere il "mostro", il Male, se ne serve come palcoscenico d'esorcizzazione del proprio trauma, e soprattutto per il sollievo dell'oblio, per dimenticare («Then the people of Hårga got excited/They forgot God and the whole world»). Propoziando la proverbiale strage finale (che si svolge in un edificio indicativamente triangolare), una tragedia composta e antitensiva, quasi fasulla. Un gioco, appunto. Imbronciata, imbacuccata in un sovraccarico ordito floreale (da piccola cocoon girl), Dani si sfila così da un archetipo empowered decaduto e ipocrita, rivendicando non uno slancio di sopravvivenza, una rivalsa, ma un'evoluzione che termini in una confortante resa, in un'isteria infantile, che quasi ricorda la mamma scream queen posseduta dalla figlioletta morta in Hereditarymentre, a sua volta, l'immagine totemica e conclusiva del tempio in fiamme si sovrappone inevitabilmente al satanico presepio funebre che chiudeva il primo film del regista. Ma il sorriso pacificato e finale di Dani/Ari non riconosce una nascita, un punto d'arrivo, un traguardo, bensì un congedo. Nel riscrivere la propria collaudatissima ricetta, Aster l'ha anche già esaurita, resa perfetta auto-installazione, sublime caricatura: e allora sì, tanto vale incorniciare il suo amore, fissarlo, commemorarlo, dirgli un dolcissimo addio. E darsi a una nuova forma (il prossimo progetto è una commedia), in attesa che il fuoco torni a divampare.