TRAMA
La sessantenne Sylvie si sposa con il galeotto Michel e i due cominciano finalmente a vivere la loro vita insieme dopo la scarcerazione dell’uomo. Ma Abel, il figlio di Sylvie, è convinto che il nuovo patrigno tornerà presto a dedicarsi al crimine e comincia a spiarlo.
RECENSIONI
Qualche anno fa, sulla rivista online Doppiozero, uscì un bell’articolo di Oliviero Ponte di Pino sulla figura di George Steiner. L’ho ricercato perché una considerazione che ricordavo vagamente vi fosse riportata mi sembrava interessante anche a proposito de L’innocente, di Louis Garrel, di nuovo regista e interprete dopo l’apologo ecologista de La crociata, opera migliore negli intenti – di certo nobili – che negli esiti filmici.
Annotava Ponte di Pino: «Per tutta la vita, George Steiner ha continuato a interrogarsi sulla sentenza di Adorno: dopo Auschwitz scrivere poesie è un atto di barbarie. Perché quello che amo e che dà senso alla mia vita – l'arte e la cultura – non ha più senso? Perché la bellezza non ha salvato il mondo?». Per poi concludere con il quesito dei quesiti, per Steiner e per molta riflessione filosofica post Olocausto: «come possiamo essere umani di fronte all'orrore di cui siamo artefici?» Il pezzo completo è reperibile a questo link.
E dunque arriviamo a L’innocente che, pur non avendo nulla di propriamente dannunziano, dall’autore pescarese riprende un titolo e forse un incedere psicologico proprio di un certo tipo di personaggio letterario che, in modo generico, possiamo ancora definire come afferente alla sfera del decadentismo; Garrel tratteggia per il suo protagonista, Abel, una figura che è in qualche senso tangente a quella dell’inetto, se lo intendiamo come un uomo – giovane adulto, per gli standard dei nostri tempi: il personaggio dichiara infatti trentadue anni, appena meno dell’interprete – avvolto in una sorta di abulia esistenziale, incapace di riprendere in mano le redini della propria vita dopo l’incidente, da lui provocato, si lascia intendere, che ha causato la morte dell’amatissima moglie. Abel, del resto, in ebraico è hebel, il soffio, l’evanescenza terrena, ma anche, nella formula hebel habalim, il superlativo di un afflato di vanità: vanità di vanità, espressione o concetto ricorrenti nell’Ecclesiaste, e poi in una miriade di testi classici o meno classici; persino nella colonna sonora di un film dell’83, diretto da Luigi Magni, State buoni se potete. Cosa ancor più gravosa, Abel, questo Abel, immune dal giudizio su sé stesso o di contro fin troppo elucubratorio, ma concretamente inerte, non sembra in grado di contemplare una prospettiva laica di perdono (né per sé stesso, soprattutto per sé stesso, né per chi gli sta intorno). Su questi presupposti il regista innesta una storia che si snoda tra i topoi della commedia brillante e quelli del polar più classico, riuscendo a mantenere un equilibrio mirabile tra i generi e bilanciando il gioco attraverso una riflessione, assai ironica e disincantata, sui generi stessi, piegati – senza alcuna forzatura, poiché gli ingranaggi assecondano il giocare del regista/attore coi suoi talentuosi coprotagonisti – al quesito che si poneva Steiner: come possiamo essere ancora umani oppure come possiamo tornare a esserlo?
Nel caso del regista e interprete francese, intriso d’arte fin dalla tenera età, in virtù di illustri, cinematograficamente parlando, natali, la ricerca non parte da L’innocente. Questo lavoro appare anzi come lo zenit (e infatti è il suo film più coeso e compiuto) di un pensiero umanista, che ha alla base una scelta onomastica precisa e comune, da Due amici in poi: Abel (e due volte, in L'Homme fidèle e in La Croisade, Marianne). Da una parte il figlio sacrificale, dall’altra l’allegoria di una nazione, con la quale stabilire e mantenere un rapporto non semplice né lineare: due vanità, una prettamente egotica, l’altra simbolico-nazionalistica – la famigerata grandeur – che si incontrano/si amano in modo problematico e problematizzato.
Poi, un’epifania che spezza il giogo dell’appartenenza a tutti i costi, appartenenza geografica e stilistica: la poesia, che è la poesia del cinema, che è finzione rivelatrice, diviene foriera del massimo grado di autenticità possibile; se non è verità, quella, è comunque qualcosa che le assomiglia e che consente di ricominciare a guardare avanti. C’è una bella sequenza in un bistrot, prima del gran colpo, una confessione che doveva essere un litigio e diventa una struggente dichiarazione d’amore, sempre di più, a ogni parola che i personaggi, Abel e Clémence, pronunciano. La virata è però precedente. In una scena in chiesa, lo spettatore percepisce che Abel è in pericolo, in quanto testimone scomodo di un progetto criminale; è qualcuno di cui è necessario occuparsi, secondo un gergo che non lascia dubbi. Ciò a cui assistiamo subito dopo tuttavia attiene alla riflessione imbastita da Garrel e porta il suo lavoro in una dimensione altra (da lì in poi non è più una questione di verosimiglianza), dove sistemare le cose è soprattutto da intendersi come salvare ciò che davvero conta, riappropriandosi della propria umana fallibilità, attraverso la poesia, attraverso il cinema. L’inetto si trasforma in soggetto agente – co-agente, perché ciascuno concorre per la sua parte – di un mutamento sgangherato e vitale.
Che cos'è dunque la poesia (del cinema) che può tutto questo? Un grande poeta – molto grande (tra i più grandi), Paul Celan – la definiva come un messaggio in bottiglia, gettato in mare con una poco speranzosa, ma allo stesso tempo tenace convinzione, che potesse giungere su qualche spiaggia, la spiaggia del cuore. La poesia sembra avere dunque, per Celan, una meta e un cammino da compiere. O forse non proprio, come Louis Garrel (che si definisce di professione poeta, ai poliziotti che lo interrogano) ci suggerisce: la poesia, e anche ciò che del cinema le assomiglia di più, è perpetuo movimento. È il ripudio della circolarità dell’eterno ritorno (quello che invece vedevamo rappresentato in L’uomo fedele) e l’accettazione del cambiamento come parte fondante del nostro essere umani. Come possiamo tornare a esserlo, quindi? Magari provando a camminare fianco a fianco, nonostante tutto, sperimentando l’ebbrezza dell’indulgenza verso sé stessi e del perdono.
L’innocente si presenta come un film scarno, essenziale, compresso negli ambienti, quasi da teatro di posa o da sala prove; è rarefatto, punteggiato, negli scorci all’aperto, da una luce abbrunita, che rimanda ai Paesaggi del lionese François-Auguste Ravier (scelta interessante, tra le altre cose, quella di Lione: i dedali ingorgati della Capitale non avrebbero consentito di ricavare spazi tanto vivibili, umani). In fondo lo asseriva bene Peter Brook e a noi tocca solo produrre un minimo scarto del pensiero tra un linguaggio e un altro, inserendo il cinema in luogo del teatro e considerando questo lavoro anche un riuscito, poetico, omaggio alla settima arte, citata e vezzeggiata senza orpelli: «Il teatro è lo specchio della società, e lo specchio non ha bisogno di cornici dorate.»
Portato a maturazione l’arco di sviluppo narrativo del suo Abele, l’innocente per antonomasia, la vittima (ma di chi?) designata da piani inconoscibili e incontestabili, è immaginabile che Louis Garrel possa cominciare una nuova parabola artistica, cambiando pelle… e forse, a questo punto, anche nome/i.
Liberato infine dall’infelice incombenza – essere innocente per forza, sempre e comunque rincorrere quello status – Abel sorride verso la camera; e noi, sinceramente divertiti e in parte anche consolati per quel fardello che gli cade dalle spalle, per quell’essere divenuto un po’ Caino, insieme a lui.