Commedia, Drammatico, Recensione

LES BIEN-AIMÉS

Titolo OriginaleLes Bien-Aimés
NazioneFrancia, U.K., Repubblica Ceca
Anno Produzione2011
Genere
Durata139'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

1963-2008, da Parigi a Londra passando per Praga e Montréal, Madeleine e sua figlia Vera vanno, vengono, ritornano, ruotando sempre intorno a un’unica questione: gli uomini che amano.

RECENSIONI

Tornano le famiglie disordinate di Honoré, alla ricerca disperata di una normalità negata dagli stessi atteggiamenti dei loro membri che sovvertono quelle logiche borghesi cui illusoriamente tenderebbero: padri fedifraghi fanno discorsi sulla dignità; madri ex puttane diventano icone del sereno vivere se stesse («Je ne crois au bonheur mais cela ne m'empêche pas d'être heureuse»); la fedeltà è un concetto nello stesso tempo vago e tenace; nell'amore e nel sesso tutto è possibile - stare insieme o lasciarsi, non stare insieme e non lasciarsi -, perché impossibile risulta solo rinunciare a se stessi («le chiens ne font pas des chats») e controllare i propri sentimenti (e non solo il film, ma tutto il cinema di Honoré si sintetizza nel verso cantato da Madeleine: «Je peux vivre sans toi, oui, mais ce qui me tue mon amour, c'est que je ne peux vivre sans t'aimer»). La famiglia di Honoré è sempre caotica, sempre un passo fuori da un riconoscibile codice conformista, in equilibrio critico, variamente disgregata, piena zeppa di ménage doppi e tripli - il sesso non incontrando nessun limite - anche se vi aleggia un'aria vagamente perbenista, un residuo tradizionalista è sempre incagliato nel suo fondo; in cui non stona l'accettazione delle scappatelle della propria moglie, né il ritorno di un ex marito che chiede, all'attuale consorte di lei, la mano della prima sposa; in cui una figlia è, prima di ogni altra cosa, il semplice prodotto dell'attività sessuale dei genitori.

Fuori dalla nebulosa bolla familiare gli amori che si consumano sono anch'essi sregolati: si imbastiscono legami improbabili o imprevedibili nel mondo pansessuale (o, meglio ancora, pomosessuale) di Honoré; di più, tra i personaggi e nelle situazioni che essi abitano non si traccia mai una barriera vera - non di epoca, non di luogo, non di genere (cinematografico) e, ça va sans dire, non di sesso -, ma tutto avviene a cavallo di tutto, qualsiasi incrocio è possibile, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi tempo: in Les bien-aimés l'uomo gay (un presque-Morrissey che cita gli Smiths non a caso) può essere sedotto da una donna («Ti consiglio di non innamorartene. Per il resto può essere divertente»), così come in Les chansons d'amour Ismaël, etero, può scoprire sesso e amore con Erwann, omosessuale («Aime-moi moins, mais aime moi longtemps»); lo scopamico (Clément, Louis Garrel) è vanamente innamorato e si strugge; madre e figlia (telle fille, telle mèr) narrano, da parte loro, la storia di due diverse (/inverse) irregolarità sentimentali che si concretizzano in legami con due persone entrambe straniere, entrambe sentimentalmente irraggiungibili; Madeleine di oggi incrocia Madeleine di ieri e ne commenta, a ragion vissuta, le mosse; si fa sesso a tre (ancora un trio sul lettone, come in Dans Paris o Les chansons d'amour) quasi per caso. Tutti i personaggi del film, a ben vedere sono beneamati, tutti sono oggetto di sentimenti, ognuno non nutrendone certezza.

Vèra - Je ne dis pas tu, je vouvoie
L'amour que je ne connais pas
Comme il est dur et froid le lit
Pour un murmure, combien de cris?

Honoré, dopo il pienamente maturo Non ma fille... e il massacrato azzardo sperimentale Homme au bain, torna al musical esistenziale (Les chansons d'amour) in cui le canzoni vengono utilizzate come segmenti di una struttura pensata per accogliere i siparietti cantati, a punteggiatura del filo narrativo. La canzone è diventata un fattore quasi irrinunciabile per il regista che, in alcuni casi (si pensi a Dans Paris e La belle personne), l'ha usata anche come pura parentesi di lavori in cui il brano cantato restava momento unico e non caratterizzante, vero e proprio oggetto a parte che non si appoggiava a nessuna struttura evidente, pratica di rottura che il regista, comunque, opera d'abitudine, amando molto lo scompaginamento della sua opera, le violente fratture al suo interno, siano esse musicali o meno.
Honoré inserisce il suo mondo in un contesto filmico che ha referenti ben precisi: Demy e Truffaut innanzi tutto. La cinefilia (il marito cecoslovacco, in età matura, è interpretato, in puro stile nouvelle vague, dal regista Milos Forman; si guardi Ludivine Sagnier - attrice sublime, sia detto ancora un volta - che non ricopre soltanto il ruolo di Madeleine da giovane, ma della stessa Catherine Deneuve anni 60) è introiettata nel discorso filmico non negli stessi termini strutturanti di un Ozon (un altro regista che ha usato la Deneuve-icona), quanto funzionalmente, come sfondo ludico irrinunciabile. In che senso? In Les bien-aimés citazioni, colori, musiche, note brillanti, lepidezza truffautiana dettano uno stile che governa la sostanza e la significa: i drammi rappresentati viaggiano su tale leggerezza di necessità e fino a prova contraria, poiché il disincanto del film vuole riflettere quello di Madeleine, una donna che ha sempre evitato «i pesi del cuore e i suoi misteri/ gli amori come sacchi di pietre» perché quando le storie vengono vissute con leggerezza «tu ne risques rien de plusque/ d'être légèrement déçue». Madeleine è il personaggio simbolo del mondo poetico del regista, ne costituisce la sintesi: il suo (di lei e del regista) raccontare i tormenti di cuore e sesso attraverso un registro aereo in cui a volte la tragedia si sublima e quasi si intuisce in controluce, a volte s'impone per contrasto (si pensi alle questioni storiche in ballo, al trasferimento in quella che sarà la Praga dei carri armati sovietici, circostanza in cui, come canta la donna stessa, si gioca - si gioca, ribadisco - a fare i transfughi).
Già in Les chansons d'amour il registro rifletteva l'umore dei personaggi: se in quel film la morte arriva quasi subito e la pellicola descrive con levità l'elaborazione del lutto, qui il cammino è inverso e si giunge, tra sketch divertiti e vivaci schermaglie, a una tragedia finale che chiude la pellicola con una nota cupissima che non c'è il più il tempo di riscattare, chiosa irrinunciabile riguardando Véra che ha compiuto, per l'appunto, il percorso inverso della madre, avendo deciso scientemente, non essendolo per nulla, di essere una ragazza leggera per affrancarsi, da ces kilogrammes de sentiment che pesano sul cuore («non do del tu, do del lei all'amore che non conosco»). Tragici (Véra, il suo arrovellarsi tormentato: «Les filles légères ont le coeur lourd, le poids du coeur rattrape toujours les filles légères, et toutes un jour, ont ce sentiment d'échouer de s'être légèrement plantée») o brillanti (Madeleine, la sua lineare logica sentimentale: «La tour Eiffel t'ennuie déjà. Est-ce la tour Eiffel ou bien moi?»): la pallina passa sempre da un campo all'altro poiché nel cinema del francese la vita come l'amore si gioca, il vincere come il perdere sono già nel conto.

A tutto questo Honoré aggiunge una prospettiva storica inedita che porta il discorso del presente lavoro ben oltre il fronte personalistico del musical precedente e lo fa oscillare tra intimismo e universalità, le avventure dei protagonisti svolgendosi in momenti storici topici (dalla Primavera di Praga dell'inizio all'attentato alle Twin Towers della fine): in Les bien-aimés i drammi personali si incapsulano nelle grandi tragedie dell'umanità, i piccoli eventi degli individui sono riflessi minimi dei grandi lampi della Storia ed è la Storia, sembra suggerire sottilmente il regista, a decidere dei loro destini: la Madeleine degli anni 60 può permettersi di essere quella femme légère che è la strada maestra verso la quale indirizza Vèra che tenta di diventarlo in un'epoca più permissiva, ma immensamente più difficile, un'epoca che conosce l'AIDS, AIDS che impedisce il suo progetto di un figlio con l'uomo che ama e la conduce al suicidio. Madeliene può essere imprudente, Véra vive in un tempo nel quale l'imprudenza (che doveva essere il titolo originale del film) costa cara. Si muove nella Storia, dunque il film, e nella geografia, mutando significativamente i luoghi (Parigi, Praga, Londra, Reims, Montreal); a tal proposito: continua ad essere semplicemente sublime il modo in cui Honoré usa gli spazi urbani, in chiave mai cartolinesca o patinata, ma come quinte realistiche con figure che si muovono al loro interno con essenziali elementi caratterizzanti e pochi accenni coreografici; spazi anonimi (a volte addirittura strade dissestate e con lavori in corso) in cui, ad esempio, un elemento come il ponte finisce per essere usato letteralmente come trait d'union tra due epoche (la trionfale entrata in scena di Deneuve). Forse il regista ingolfa troppo la prima parte, quella più citazionista e che la Segnier regge da sola, ma il film ha tutto il tempo, poi, di dispiegare l'enorme massa di motivi, di rendere conto della sua complessità, della sua felice ispirazione narrativa, baciata dalle splendide canzoni di Alex Beaupain (i cui testi-didascalia, sono elementi che segnano tappe leggibili del cammino del racconto e decodificano l'animo dei personaggi), e interpretata meravigliosamente da tutti i suoi attori.