Recensione, Western

L’ASSASSINIO DI JESSE JAMES PER MANO DEL CODARDO ROBERT FORD

Titolo OriginaleThe Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2007
Genere
Durata155'
Sceneggiatura
Trattodal romanzo omonimo di Ron Hansen
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Autunno 1881: Jesse James ha 34 anni e sulla testa una taglia che fa gola a molti, amici compresi. Durante i preparativi dell’assalto al treno di Blue Cut, un diciannovenne petulante si fa avanti: si chiama Robert Ford ed è disposto a tutto pur di entrare nella banda dei fratelli James. Il rude Frank lo liquida brutalmente, ma l’affabile Jesse non pare disprezzarlo. Per il bandito più famoso del west è l’inizio della fine.

RECENSIONI

Ambivalenza, ambizione, angoscia che scortica, sospetto che soffoca. Esplosioni di cocente bellezza. Un film neohollywoodianamente lento e introspettivo ma attraversato da un’intensità paranoica ferocemente postmoderna: un gangster movie più che un western, come puntualizzato al Lido da Pitt in una delle conferenze stampa più demenziali di tutti i tempi. Tratto dall’omonimo romanzo di Ron Hansen, The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford è la stupefacente opera seconda di Andrew Dominik, già apprezzato autore di video musicali e del lungometraggio Chopper. Suo anche l’adattamento: una sceneggiatura che nell’illustrazione del libro rispetta fedelmente l’autenticità dei fatti, concentrando lo sforzo inventivo nella rappresentazione delle dinamiche psicologiche. Dalla pagina allo schermo le azioni restano inalterate, sono le reazioni ad essere riformulate, o meglio immaginate. Ed è qui che il regista e sceneggiatore neozelandese getta le basi di un film semplicemente maestoso: nessun manicheismo, nessuna concessione allo psicologismo. I perché proliferano, l’ambiguità imperversa proiettando il comportamento dei personaggi nella sfera della contraddittorietà, dell’ombrosità, dell’antieroismo. La codardia eponima di Robert Ford si impregna di sfumature seducenti, convertendosi in progetto vendicativo a sua volta pervaso di sottile autodistruttività. Non c’è fondo alla densità psicologica di questi personaggi. Sono spietati, affabili, sospettosi, gentili, imprevedibili, riconoscenti, meschini: esseri umani. Senza premura, senza schematismi Dominik intona una ballata malinconica di caratteri tormentati, una sinfonia struggente intrisa di nichilismo. La radiografia di un vigliacco la cui viltà odora di sublime. La lotta è contro se stessi ancor prima che contro gli altri. Devastante la visionarietà: soffuse da un alone sfuocato, le immagini smerigliate da Roger Deakins trionfano sullo schermo con uno splendore letteralmente malickiano (impossibile non pensare allo scope almendrosiano di Days of Heaven). Flautata e solenne, la voce over le avvolge preziosamente, magnificandone la sontuosità. I ralenti ne enfatizzano la rarefazione fino a renderla straziante, i freeze frame – inevitabile tributo a Peckinpah – raggelano la visione in funereo rigor mortis. Interpretazioni esaltanti: Casey Affleck fa camminare Robert Ford sulla corda tesa della teatralità, Brad Pitt si pavoneggia dentro Jesse James e Sam Rockwell, nel ruolo più difficile del film, indossa la maschera del (finto) tonto. Cameo da brividi per Sam Shepard nei panni di Frank James e pungente comparsata di Nick Cave (anche autore delle musiche insieme a Warren Ellis) in quelli di un inopportuno cantastorie.
Signori, il titolo più lungo della mostra è senza ombra di dubbio il più bello visto a Venezia. Di una bellezza perlacea, sepolcrale, gloriosamente antispettacolare. “But that dirty little coward / That shot Mr. Howard / Has laid (poor) Jesse James in his grave”.