TRAMA
Delta del Po: Mara giunge nel paesino di Concadalbero come nuova maestra e incontra un meccanico tunisino.
RECENSIONI
Carlo Mazzacurati è, con esiti alterni, a volte convincenti (Il toro rimane il suo titolo migliore), quasi mai indecorosi (il film precedente, L’amore ritrovato, tanto per fare un esempio, che sulla carta sembrava nelle sue corde e che invece si risolveva in una trasposizione piatta e incolore del romanzo di Cassola, scrittore col quale era lecito attendersi ben altra sintonia), è uno dei registi italiani della generazione di mezzo del cui cinema rimane lecito sondare lo stato di salute. Alle prese con l’ambiente che riesce a descrivere meglio, quello della provincia del nordest, il regista torna alle atmosfere lattiginose della campagna che conosce bene consegnandoci un ritratto, piuttosto persuasivo, di un ambiente e di un’umanità. Non rinunciando mai a una lettura morale dei fatti osservati, uno degli aspetti caratteristici del suo fare cinema, prediligendo - in controtendenza rispetto a tanti registi italiani che si affannano a chiarire tutto - ellissi narrative, accenni e rinvii, Mazzacurati costruisce con progressiva tensione e asciutta drammaturgia il suo anti-giallo in odore chabroliano alternando il dato cronachistico (ma il ragazzo che sembra solo osservare i fatti diventa alla fine il motore etico del dramma) a quello più propriamente umano e problematico. Ma anche in questo secondo caso lo scontro culturale, il rapporto tra etnie differenti, il pregiudizio, la chiusura, il bigottismo non si risolvono mai in un tema da tradurre in sceneggiatura, ma risultano parte integrata di un quadro generale compiutamente definito che rimane primario obiettivo della rappresentazione.
Senza rinunciare a certo facile bozzettismo (le figure paradigmatiche che costituiscono Il Paese, il personaggio del pur bravo Bentivoglio), a tratti con un suo perché, e a certe derive felliniane (la scena notturna del traghetto è quasi spudorata, ma il personaggio della tabaccaia ci rassicura sulla consapevolezza – ironia? - dell’autore) il film, confermando la pittoricità dello sguardo del regista, sempre estremamente attento alla resa degli spazi e dei luoghi in panoramiche umane mai puramente estetizzanti (la fotografia è di Luca Bigazzi), traduce l’incombente senso di minaccia (il paesaggio non ci rassicura, i cani vengono uccisi, gli sguardi della gente fendono lo spazio) in una narrazione scarna e tesa (con momenti quasi horror), a tratti ben supportata da una scrittura adeguata nei toni e nelle situazioni. L’osservazione, del regista o dei personaggi stessi, di questo nucleo di vita, alterna “la giusta distanza” ad un partecipazione e a un giudizio espressi: la stessa protagonista (Valentina Ludovini, ha un futuro davanti), ennesimo personaggio della filmografia del regista che penetra da estraneo in un contesto radicato e riconoscibile, sembra essere vittima di un errore di prospettiva (non ha valutato la giusta distanza da tenere con ciò che la circonda?), di un eccesso di disinvoltura, sottostimando le dinamiche dell’ambiente nel quale agisce e non calcolando le esatte conseguenze di un comportamento che agli occhi della provincia nella quale va a vivere risulta inspiegabile quando non inaccettabile. Non sono assenti suggestioni letterarie (un’altra costante del regista che non a caso si incaricò della riduzione per lo schermo di un romanzo straordinario e difficile come Il prete bello di Parise), che traspaiono anche dall’amore per i personaggi che il regista mette in scena, in quest’opera che pur con qualche lungaggine (la parte processuale, francamente inutile), si chiude con l’ennesimo sviamento, una singola scena muta che sancisce davvero la giusta distanza tra Mazzacurati e tanti, troppi registi miracolati.
Il miglior cinema di Mazzacurati veste il natio Veneto: nonostante gli usuali sgambetti di una poetica indecisa fra dramma e commedia, analisi sociale feroce e macchiettismo, immerge nei suoi paesaggi, tipi e situazioni, restituendo una provincia chiusa, truffaldina, asfissiante, multietnica. Il regista ha sempre uno sguardo di riguardo per gli immigrati in Italia e per le figure femminili smarrite: se non sono extracomunitarie come in Vesna va Veloce, va benissimo anche una toscana in un altro pianeta. La galleria iniziale di buffi personaggi è nel segno di Fellini, evocato anche dalla scena insieme surreale, lirica e struggente della maestra matta alla deriva sul traghetto. C’è qualcosa, anche, della commedia erotica alla Samperi, con questo ragazzino incantato dalla bella matura, il tunisino che la spia in lingerie, l’autista dell’Ape Piaggio che la teme per quanto lo turba. Ma il tema sotterraneo è quello della contrapposizione fra la morale di Giovanni, che non tiene “la giusta distanza” e scopre la verità e tutto il resto del mondo, fra vittime dei pregiudizi razziali (l’avvocato di Marescotti) e arricchiti cafoni da Vacanze di Natale (Battiston). A non funzionare sono due elementi non da poco: innanzitutto le recitazioni dei due protagonisti, un Giovanni Capovilla poco espressivo e con tono monocorde e una Valentina Lodovini che, al contrario, di espressioni affettate ne regala troppe, con quel perenne sorriso/sguardo solare. Encomiabili, invece, tutti gli altri interpreti, a partire da Ahmed Hefiane. Poi c’è questo calderone di registri che rende il tutto “informe”, senza geometria espressiva, ma Mazzacurati riesce sempre ad iniettare un senso di inquietudine, una nota stonata, qualcosa che non vuole riconciliare con la commedia o i sentimenti descritti e che prepara alla tragedia a venire. In questo caso torna dalle parti giallo/poliziesche di Notte Italiana (citato in Tv con il personaggio di Tornova), in altre opere serve, più in generale, il male di vivere, la malinconia.