TRAMA
Nel Medioevo un gruppo di cavalieri teutonici scopre un villaggio di streghe. Lo brucia, uccidendo tutti gli abitanti, e seppellisce i morti in una grande fosse comune. Ai giorni nostri la giovane restauratrice Lisa sta lavorando su un dipinto in una cattedrale gotica. Tra passato e presente non sono pochi i legami. A farli emergere sarà proprio Lisa insieme al bibliotecario Evald, appena assunto e subito piuttosto curioso.
RECENSIONI
Doveva essere diretto da Lamberto Bava e uscire come terzo capitolo della saga “Demoni”, invece Bava, già in accordi con la Fininvest per dirigere la miniserie televisiva Fantaghirò, fu rimpiazzato dal suo aiuto regista Michele Soavi. Un giovane (all’epoca trentaduenne) che si era già fatto notare come aiuto regista di Dario Argento (Tenebre, Phenomena e Opera) ma la cui avventura nel mondo del cinema era cominciata grazie alla collaborazione con Joe D’amato (il nostrano e infaticabile Aristide Massaccesi) che dimostrò di credere in lui al punto da produrgli l’opera di debutto Deliria. Una fiducia ben riposta visto l’apprezzamento di critica e pubblico e un premio al festival di Avoriaz, attivo fino al 1993 e specializzato nel cinema fantastico. Soavi arriva quindi all’opera seconda con varie etichette, tra cui ”erede di Dario Argento” e “nuovo re del brivido”. Aspettative che non vengono disattese, anche perché il nuovo film è co-sceneggiato e prodotto proprio da Argento e attinge molto da Inferno, in particolare nell’idea di un luogo che racchiude tutto il male del mondo ed è pronto a diffonderlo. Per capire meglio il film occorre però collocarlo temporalmente. La chiesa, infatti, esce nelle sale il 10 marzo 1989 e rappresenta uno degli ultimi bagliori dell’horror italiano, ormai in fase calante dopo un decennio davvero intenso in cui Dario Argento e Lamberto Bava sono i maestri più celebrati. Il risultato, pur figlio dell’epoca in cui è stato concepito, offre motivo di interesse ancora oggi. Prima di tutto perché ha una cura formale che molti registi contemporanei si sognano. Soavi, infatti, dimostra grande competenza tecnica e sperimenta, osa, azzarda, esplora, sfrutta ogni anfratto del luogo in cui la vicenda è quasi completamente ambientata (una suggestiva cattedrale ungherese) e si ispira dichiaratamente a opere pittoriche nella composizione delle inquadrature e nella resa cromatica (Hieronymus Bosch in primis). Ma anche perché propone un cinema di genere ambizioso, spettacolare, lontano dal minimalismo furbetto impostosi successivamente con l’avvento del digitale che vuole budget risicati abbinati a tinelli male illuminati (un titolo per tutti, l’impresentabile La notte del mio primo amore). Il binomio fantasy / horror, poi, apre le porte a diversi spunti e l’incipit medioevale, di grezza efficacia, pone ottime basi. L’idea di una enorme fosse comune di presunti seguaci di una setta satanica e di una cattedrale costruita a mo’ di tappo per impedire alle forze del male di invadere la terra è, Infatti, semplice ma potente. Poi, ed è il difetto di altre produzioni affini, i caratteri ai limiti del grottesco dei tanti personaggi, una recitazione non sempre all’altezza, un doppiaggio spesso stridente e una sceneggiatura piuttosto bislacca nell’annodare e sciogliere i fili, rendono l’insieme un po’ involuto, soprattutto nella parte centrale che gira per lo più a vuoto. Si respira però una piacevole atmosfera di anarchia, di effetti speciali casarecci ma comunque gustosi (opera del sempre fantasioso Sergio Stivaletti), di trovate originali che sembrano una boccata d’ossigeno rispetto a molti filmetti contemporanei, in fondo sovrapponibili. Pensiamo solo ad alcuni dettagli, come la maschera di cesto, la statua incappucciata con il volto oscurato, l’abito da sposa incastrato in mezzo al portone d’entrata della chiesa, il martello pneumatico sventratore, oppure alla fuga nelle segrete conclusa con l’inatteso schianto contro un treno della metropolitana. Elementi che colpiscono e dimostrano un’attenzione alle immagini in grado di sopperire alle lacune narrative. Nel cast si distinguono Barbara Cupisti, allora piuttosto in voga (con Soavi anche in Deliria e Dellamorte Dellamore) prima di intraprendere con successo una carriera di documentarista (tra gli altri Madri, vincitore del David di Donatello nel 2008), il mimetico Tomas Arana, poco riconoscibile dal grande pubblico ma presente in tantissimi film e serie tv sia italiani che stranieri (da Io e mia sorella a Guardiani della galassia), Fëdor Fëdorovič Šaljapin, dalla forte presenza scenica e famoso soprattutto per il monaco cieco interpretato ne Il nome della rosa, e una giovanissima Asia Argento, per l’occasione doppiata. Discorso a parte per la colonna sonora che include brani di Keith Emerson (tra cui anche una rielaborazione di Prelude 24 di Johann Sebastian Bach) e dei Goblin. Le maggiori suggestioni sonore, però, derivano dalle note prolungate e ipnotiche di Floe di Philip Glass, eseguita da Martin Goldray, che contribuiscono non poco alla creazione di un’atmosfera sinistra e di pericolo incombente. La carriera di Michele Soavi è proseguita poi, dopo La setta (1991) e il già citato Dellamorte Dellamore (1994), come regista di fiction televisive di successo (tra le altre, Uno bianca, Nassiriya - Per non dimenticare e Adriano Olivetti - La forza di un sogno). Il ritorno al cinema è avvenuto nel 2006 con il noir Arrivederci amore, ciao ed è proseguito nel 2008 con il dramma storico Il sangue dei vinti, ma entrambi non hanno lasciato particolare traccia. Inutile dire che sarebbe interessante vederlo nuovamente all’opera con il genere da cui tutto ebbe inizio.
