TRAMA
In una scuola di danza isolata nel bosco nei dintorni di Friburgo, due allieve vengono uccise in modo orribile. L’americana Susy scopre che sulla scuola grava una maledizione e che, forse, la direttrice è una strega.
RECENSIONI
A sorpresa, dopo il successo di Profondo Rosso, Dario Argento decide di abbandonare il thriller/giallo terrifico per gettarsi a piene mani nel puro horror (gotico), con profusione di effetti (e colpi bassi) sonori che hanno fatto scuola (tuoni, lampi, venti, lamenti ed acque infingarde compresi), inventivi punti di inquadratura (molti primi piani sui dettagli), contrasti da esteta espressionista e post-moderno, scene grand-guignolesche progressivamente più plateali ed inverosimili (da citare Stefania Casini sul filo spinato; c’è anche una ripresa delle biglie di 5 Bambole per la Luna d'Agosto di Mario Bava). Per ottenere colori marcati (su tutti il rosso), ispirandosi alla tavolozza di Biancaneve e i Sette Nani di Walt Disney, il direttore della fotografia Luciano Tovoli utilizza pellicole anni cinquanta della Kodak e filtra la luce con stoffe tinte, mentre Argento, negli interni, predilige architetture neo-classiche e scenografie labirintiche kitsch. Scritto assieme alla compagna Daria Nicolodi (che ha preso a prestito alcuni racconti della nonna pianista), facendo studi sull’occulto e tenendo a mente le fiabe classiche, il film lascia volutamente inspiegati molti misteri (il sorriso finale della protagonista; le streghe che uccidono senza motivo, perché il solo gusto di farlo è più inquietante) e contiene una memorabile colonna sonora sperimentale dei Goblin, con bouzouki ellenico (il tema principale) e varie percussioni africane. Il titolo (e l’idea delle tre madri) è preso a prestito da “Suspiria de profundis” (1845) di Thomas De Quincey: il tutto ha qualche debito (figurativo e umorale) con Il Fantasma del Palcoscenico di Brian De Palma da cui, non a caso, riprende Jessica Harper. Nel genere horror, all’estero, è un cult sin da allora (la critica italiana, invece, non capì). Seguito: Inferno.
Con Suspiria Dario Argento inaugura la Trilogia delle Madri, servendosi nei due film che seguiranno, Inferno e La terza madre, di un gioco serrato di rimandi e di riproposizioni costruiti sulla giustapposizione di un'estetica ormai ben codificata e di un impianto narrativo che ne costituisce la sua più diretta emanazione. Al rapporto sinestetico tra suono, diegetico e non, e fotografia in formato Technicolor è affidata la tenuta generale di una logica narrativa altrimenti claudicante. Il Technicolor e l'utilizzo di lenti anamorfiche esasperano la distorsione dell'immagine e la saturazione dei colori, spalancando le porte ad un'allucinazione visiva densa e morbosa, in cui le architetture degli edifici e gli altri elementi scenografici compongono una coreografia maestosa e psichedelica. Il rosso del sangue delle vittime, delle tende, dei fari delle macchine in strada che si riflettono sulla pioggia battente, ribolle in maniera assordante e claustrofobica, evidenziando ulteriormente la percezione intuita, ma non del tutto manifesta, di una minaccia imminente.
L'accento posto proprio sull'utilizzo del colore e della luce si rafforza in presenza di una colonna sonora, composta dai Goblin, che acutizza il dramma in atto e che orchestra in maniera implacabile il ritmo della narrazione cinematografica. Un'ossessione incalzante calibrata su una tensione che si potenzia inquadratura dopo inquadratura, cifra stilistica di una paranoia che si insinua e scorre nelle larghe trame del tessuto narrativo. Il male è intuito, percepito come un presentimento mortifero, come un sibilo e sospiro notturno, sempre celato accuratamente da qualche impedimento che ne intralcia la visibilità e che, solamente in conclusione, viene svelato e rivelato attraverso l'immagine.
Procedendo per gradi, o per veri e propri scalini narrativi, l'incubo si avviluppa in un climax culminante nell'esplicita manifestazione visiva del male e nel successivo scioglimento e decapitazione della testa madre.
L'impostazione simbolica che Dario Argento conferisce al racconto ricalca quasi specularmente il modello più classico di fiaba, in cui all'ingenua ma non del tutto sprovveduta protagonista (Jessica Harper), portatrice di candore e purezza, si affiancano figure antagoniste quali propaggini di un male espanso e diffuso. Ancora una volta dunque ci troviamo difronte alla contrapposizione manichea tra forme di purezza quali incarnazioni del bene e contaminazioni maligne legate alla magia nera e all'occulto. Proprio nella compenetrazione tra queste due sfere apparentemente opposte si realizza lo snodo narrativo che porta allo svolgimento della storia: come ricorderà il professore interpellato proprio dalla protagonista “la magia è quella cosa che ovunque sempre e da tutti è creduta”; ovvero è necessario farsi contaminare anche solo dal tarlo del dubbio per diventarne vittime inconsapevoli. Un processo molto simile all'immedesimazione cinematografica che permette al meccanismo, in questo caso infernale, del film di sostituirsi al piano del reale.
“Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo...Mi fermai e guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando”
Edvard Munch