Drammatico, Storico

LA CADUTA

Titolo OriginaleDer Untergang
NazioneGermania
Anno Produzione2004
Durata150'
Sceneggiatura
Tratto dadal libro di Joachim Fest

TRAMA

Adolf Hitler e la sua masnada, stanchi di vivere nel bunker, festeggiano il compleanno del Capo, rimpiangono il tempo non lontano in cui dominavano il mondo, e finalmente si tolgono di mezzo.

RECENSIONI

Bunker del tramonto

Il nostro splendido ideale sta tramontando, assieme a tutto ciò che di bello, di lodevole, di nobile e di buono io abbia conosciuto nella mia vita. La vita che verrà dopo il Führer ed il Nazionalsocialismo non è più degna di essere vissuta, e dunque ho portato anche i bambini con me. La vita, dopo di noi, non sarebbe degna di loro, ed un dio misericordioso mi comprenderà, per aver voluto io stessa la loro salvezza!
(dalla lettera di Magda Goebbels al figlio di primo matrimonio, 28 Aprile 1945.)

La caduta di un potente ha sempre costituito un tema ghiotto, per scrittori e cineasti. Quando poi questi è un criminale che ha condotto un paese al delirio collettivo, un intero continente alla catastrofe, e varie minoranze – politiche, etniche, religiose, sessuali – dappresso all’estinzione, la tentazione è irresistibile, poiché al tema del tramonto solitario e penoso, talvolta patetico, di un paranoico (secondo la diagnosi insuperata di Elias Canetti) cui si rivela d’improvviso il grado della propria follia, si somma quello della tragedia epocale, del nullo valore degli individui nell’atroce gioco del potere, della pericolosa passività delle masse di fronte alle seduzioni degli stregoni che ne sanno toccare i punti deboli (i soliti: avidità, orgoglio nazionalistico, moralismo, ansia di purezza, volontà di potenza). Gli ultimi giorni di Hitler erano stati oggetto, trent’anni orsono, di un discreto film di Ennio De Concini (Alec Guinness era il Führer) che presenta, pur nella differente statura, pregi e difetti analoghi a quelli dell’opera di Hirschbiegel, segno di quanto sia difficile governare una materia così incandescente ovviando alle mille trappole che essa presenta. Tra i pregi, la chiarezza narrativa, per cui veniamo a sapere chi siano i vari personaggi, quale sia stato il loro ruolo nel regime, cosa si apprestino a compiere e quale sarà il loro destino (tramite dei quadretti finali con didascalia che sanno tanto di documentario per la televisione, dalla quale peraltro il regista proviene e alla quale è augurabile che torni). Ma questi eccessi didascalici sono anche uno dei limiti del film: infatti, per poter illustrare la storia al pubblico, l’autore utilizza tutti gli espedienti atti all’uopo, noti da sempre alla retorica di calibro medio-basso: dalla preterizione all’introduzione di personaggi-portavoce ma superflui nell’economia della narrazione, alla formulazione di dialoghi del tutto improbabili in cui un personaggio racconta o ricorda a un altro cose che quest’ultimo sa benissimo. L’effetto, come si può immaginare, è di impiombare il film, nel quale pure non mancherebbero i momenti avvincenti. Agli eccessi didascalici si accompagnano quelli pedagogici: il personaggio del nazista buono che spiega tutto a tutti ogni volta che gli si presenta l’occasione, e ovviamente il personaggio – anzi due, per soprammercato – che si redime scoprendo l’orrore della guerra quando gli ammazzano amici e parenti, o l’orrore del nazismo quando le bombe gli piovono sulla testa. Meglio tardi che mai. Infine, per un malinteso senso di fedeltà alla verità storica, vi sono personaggi non solo inutili sul piano narrativo o drammatico, ma anche su quello didascalico o pedagogico (Fegerein, Greim, Reitsch) e posti in mezzo alla storia, immaginiamo, solo perché avendo fatto la loro comparsa nel bunker il regista non si è sentito di omettere una loro comparsata nel film. Come si vede, il problema di fondo è proprio questo: Hirschbiegel fa della cronaca, non della Storia. Vuole fornire un quadro il più possibile esatto di quei giorni, e fornisce perciò una sommatoria di vedute e di eventi; ma manca di capacità di visione, e non offre di conseguenza nessuna lettura di quel quadro, a parte un generico sentimento di orrore buono per tutte le occasioni.

Il segnale più vistoso del fallimento dell’operazione è l’inconsistenza del personaggio cui viene affidato un punto di vista privilegiato, la giovane ragazza infatuata del Führer, a cui fa da segretaria, e confidente di Eva Braun: un po’ piange e un po’ strilla, un po’ trasecola e un po’ corre di qua e di là. Ella dovrebbe incarnare la stessa comunità tedesca, per oltre dieci anni sedotta dall’omino coi baffi; il tema arduo, l’abdicazione a ogni responsabilità e l’affidamento di un intero popolo a uno sciamano nel quale si proiettarono frustrazioni e paure, vanità e istinti distruttivi, viene così risolto nel modo più semplicistico e autocommiseratorio – per la malinconia della tramontata grandezza, prospettiva nella quale si distingue il personaggio particolarmente irritante di Albert Speer – volendo farci credere alla favola di una nazione di beoti inconsapevoli che fu turlupinata dal Dulcamara di turno. Favola bella che anche in Italia conosciamo pur troppo. L’ambizione del regista e del suo soggettista, lo pseudo-storico e para-liberale Joachim Fest, era quella, nientemeno, di “capire il male insito in ognuno di noi”. Missione incompiuta. Per scoprire una capacità di vedere la Storia, ossia un modo di pensarla e di concepire l’Uomo che la abita, consigliamo di rivolgersi altrove: a Chaplin, a Rossellini, a Syberberg, a Sokurov, che conoscono il coraggio della scelta e il genio dello stile, e hanno saputo inventare il vero e portare alla luce il tragico verminaio del Terzo Reich e la disperazione del suo crollo. Dubbio malizioso: ci viene risparmiata la vista della coppia imperiale appena suicidatasi; questa scelta non dipende certo da generica pietas, dato che subito dopo non ci viene risparmiato l’assassinio dei sei bambini sei della nidiata Goebbels da parte della loro squisita mamma, donna Magda. Non vorremmo, allora, che dipendesse da un senso di implicito rispetto verso il corpo sacro del sovrano; ciò rafforzerebbe i sospetti di “oggettivismo ai limiti dell’indifferenza” lanciati da Wenders all’opera del collega. Nota positiva: un certo tono grottesco – anch’esso accomuna il film a quello di De Concini – trapela in taluni momenti: i generali dello Stato maggiore che si ubriacano quando sono in anticamera, ma si presentano compunti e serissimi di fronte al Gran Capo; il momento in cui tutti, nel bunker, parlano solo di come suicidarsi (veleno o sparo? Colpo di revolver alla tempia o in bocca?) e Hitler addirittura intrattiene galantemente sul tema le signore; il notaio che, per poter celebrare il matrimonio con la Braun, con l’immutabile meccanicità burocratica degli onesti carnefici di Hitler chiede al Führer un documento d’identità. Nota cronistica: in prossimità dell’uscita in sala si è ventilato, forse a scopo pubblicitario, il rischio di un’umanizzazione del personaggio di Hitler, che avrebbe potuto creargli qualche “simpatia” (sic). Nulla di ciò: se umanizzazione c’è stata, la sottospecie alla quale il dittatore viene iscritto è quella della marionetta nevrastenica, mentre la sua compagna finisce nella categoria delle oche giulive; non pare dunque che sotto questo aspetto i paventati timori avessero fondamento. Semmai, il delirio psico-nazista è di maniera – pur trattandosi, almeno con Bruno Ganz, di maniera eccelsa.

L’elemento che ne fa un film particolare se non magistrale, è il disegno che riesce a restituire dello spirito della Germania nazionalsocialista: l’Hitler (un grandissimo Bruno Ganz, nella prova della vita) che sorge dal brainstorming fra lo sceneggiatore Bernd Eichinger, il libro “La disfatta” di Joachim Fest e l’autobiografia di Traudl Junge (la segretaria, che compare all’inizio in un’intervista in cui non si perdona di averlo amato e seguito), è al contempo un uomo affettuoso, un folle, un eroe con la lucidità di chi non vuole capitolare, un tipico rappresentante dell’egoismo del potere che s’aggrappa all’illusione a scapito di migliaia di vittime, un commediante che non riesce a vedere la realtà. Ne scaturisce un disegno composito, ambiguo, in cui la brutalità non è tanto mostruosa quanto legata a convinzioni esecrabili che, oltretutto, condivideva con i suoi più accaniti sostenitori (la legge del più forte, l’odio verso gli ebrei), ma anche figlia di una mente instabile, capace di portare all’Inferno con sé l’intera Germania. Questa vicinanza creata con il dittatore che scopre non solo le debolezze ma anche tratti “positivi” può irritare ma era anche l’unica via possibile, più plausibile (e non figlia di comode demonizzazioni), per spiegare chi erano, allora, i tedeschi: la coralità di personaggi (tutti rigorosamente storici, documentati) che circonda il Fuhrer rappresenta allegoricamente varie anime del paese, dall’ipocrita opportunista (Himmler), al fanatico (Goebbels), dalla gioventù hitleriana lobotomizzata (il bambino che combatte per le strade di Berlino) all’uomo che compie solo il proprio dovere, ma con umanità (il colonnello di Christian Berkel), dal fedele che rinsavisce vedendo la follia (Albert Speer) alla più mostruosa figlia di quella cultura di onore e morte, la moglie di Goebbels che uccide senza batter ciglio gli adorabili cinque figli, perché non c’è futuro senza nazismo (una scena davvero potente, toccante, disturbante). Esiste una versione televisiva più lunga di 22’.