
TRAMA
Si festeggia la vittoria elettorale del ministro-ombra Janet (Kristin Scott Thomas), pochi invitati sono attesi, il marito Bill (Timothy Spall) sembra turbato, estraneo, confuso. Un interno domestico sobrio e elegante è pronto ad accogliere, al suono di un vinile, formalità e informalità, bugie, segreti, battute taglienti. Seguono imprevisti.
RECENSIONI
The Party, doppio senso immediato per il pubblico anglosassone, intraducibile in italiano, è al contempo “la festa” e “il partito”, e racconta in effetti la celebrazione privata di una vittoria politica, un’aggregazione di parti in un salotto che è un set e un palcoscenico, una disfatta che guarda all’esterno solo in due punti coincidenti, l’inizio e la fine, senza mostrarci il controcampo, che siamo noi, con una pistola puntata, con un esito incerto, improvvisamente estranei come Europa e Inghilterra, ed è Marianne, la presenza evocata e invisibile, come la Maggie di Sleuth che pure giunge a scatafascio avvenuto, ciliegina amara sulla torta, anzi, sui vol au vent bruciati, letteralmente “volati” al vento, come il partito laburista.
Al suo nono lungometraggio, Sally Potter trova nuove variabili per confermare il suo cinema eterogeneo e coerente in cui nessun film, per stile, scelte registiche, messa in scena, somiglia ai precedenti, ma la scrittura, il pensiero, il modo sono assimilabili: della regista e sceneggiatrice londinese si sente la mano e si riconosce il tratto femminile, mai “femminista”, come lei stessa tiene a precisare attribuendosi orgogliosamente l’aggettivo, certo, ma respingendolo per i suoi film, che soffrirebbero di un limite di categoria, una marginalizzazione forzata e falsata che circoscrive il pubblico e confina l’autore. Nonostante l’attenzione da sempre rivolta alle figure femminili (già nell’88 firmava I’m an Ox, I’m an Horse, I’m a Man, I’m a Woman, documentario sul ruolo delle donne nel cinema sovietico), Potter scrive e dirige film universalmente fruibili, sperimentando forme nuove, lavorando con una quantità di attori diversi (sceglie per il suo Orlando la Tilda Swinton musa di Jarman e di molto ante-Narnia che nessuno conosceva, mette in scena anche se stessa, regista e ballerina in Lezioni di tango insieme al tanguero Pablo Veron garantedogli fama mondiale). Se c’è qualcosa che realmente accomuna i suoi lavori, è piuttosto una dialettica uomo-donna che si accompagna a quella pubblico-privato. Potter sceglie un contesto e lo narra attraverso storie personali che lo riflettono (si pensi ad Annette Bening che, di fronte al crollo emotivo di Elle Fanning negli anni 60 di Ginger & Rosa motivato dal pericolo imminente dell’atomica, chiede che cosa la sconvolga davvero, dandole occasione di svelare e sfogare tutto il peso di un turbamento privato; al confessionale in green screen che è Rage; alla progressione della lite in Lezioni di tango “tu non sai niente di cinema/tu non sai niente di tango/tu non sai niente di me”). Figure maschili e femminili si interlacciano in una politica dei sentimenti, si scambiano le parti, si interpretano vicendevolmente (Jude Law è donna in Rage, la Swinton lo diventa in Orlando). Risulta allora assolutamente coerente che il Timothy Spall di The Party (sempre ottimo anche nella nuova, irriconoscibile versione magra e allampanata) inauguri il film con un disco che gira al suono di “I am a man” di Bo Diddley (udibile il testo cantato “I spell m-a-n”: anche lo spelling, nel caso non fosse chiaro), in evidente antifrasi con un ruolo al quale ha abdicato (tra lui, un disperato Cillian Murphy e Bruno Ganz new age, i più virili sono la tripletta di maschietti in arrivo alla coppia lesbo radical chic).
Dai dialoghi taglienti emergono faglie redatte in convenevoli salottieri, strutture di pensiero destinate alle accademie e mancanti di qualunque senso pratico («you’re a first class lesbian, and a second rate thinker», sei una lesbica di prima classe e un’intellettuale di seconda, dice Patricia Clarkson a Cherry Jones), necessità reciproca che altro non rispecchia se non l’estraneità al resto del mondo: la festa va in fumo, il partito di conseguenza; la circolarità si spiega come incapacità di uscita dai propri circuiti -sempre più corti-, il bianco e nero è una parabola chic che lascia il tempo che trova, e lo trova molto bene, dati i tempi.
L’ottima scrittura, soprattutto dei dialoghi, garantisce ritmo, ironia, arguzia, asprezza, causticità e altre virtù britanniche. Il cast è garanzia, la direzione è salda. E, come spesso in Sally Potter, regista e sceneggiatrice meritevole, che però raramente evade la misura della propria bravura stabile, abbiamo un buon film, con una sua personalità, da vedere.
