TRAMA
Dall’omonimo libro di Anthony Swofford. Nell’estate del 1990, il ventenne Swofford, arruolatosi l’anno prima nei marines, viene mandato in Arabia Saudita a combattere la Prima Guerra del Golfo.
RECENSIONI
… per una volta, una banale e pelosa frase di lancio potrebbe nascondere qualche verità non del tutto banale. La villosità sta nel fatto che in casi come questo i geni del marketing lavorano per sottrazione, si liberano cioè degli scheletri (ROAD TO PERDITION) e ricordano ai potenziali spettatori qualche vecchio fasto. La verità di fondo risiede invece nella effettiva affinità tra AMERICAN BEAUTY e JARHEAD, affinità di fronte alla quale Road To Perdition, a prescindere da qualunque giudizio di valore, appare davvero un corpo estraneo all’interno del trittico di Mendes; si trattava infatti di un prodotto dall’impostazione classica, un film di genere diligentemente “svolto” che omaggiava illustri precedenti come IL PADRINO e C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA (ma anche il Bogdanovich di PAPER MOON). La cosa stonava un po’ con l’esordio del regista, che in American Beauty il genere lo aveva evitato, puntando sì su una confezione impeccabile ed elegante tendente al patinato, ma “bilanciandola” con un’atmosfera surreale, personaggi stereotipati ma idonei al contesto iperbolico e mostrando mano sicura per un simbolismo onirico facile quanto di sicuro effetto. JARHEAD riparte esattamente da lì: dice poche cose già sentite ma le dice benino, in odor di film d’autore. Il film, infatti, che non è esattamente un “film a tema” perché narra in fondo una vicenda psicologico/umana soggettiva (sorta di Bildungsroman narrato in prima persona), nondimeno ribadisce qualche concetto non esattamente nuovissimo: assurdità della vita/addestramento militare, follia della guerra e gioventù bruciate sul fronte (per sintetizzare con buona approssimazione). I riferimenti più vicini sono senz’altro FULL METAL JACKET, citato alla lettera nell’incipit e pesantemente mutuato nella struttura generale, e APOCALYPSE NOW, modello di film di non-guerra e di (enigmatica) introspezione psicologica, del quale viene mostrata, “film nel film”, la nota sequenza degli elicotteri su musica di Wagner. Proprio la parte in cui i marines “tifano” per i loro colleghi filmici solleva uno dei problemi di Jarhead, ossia gli schematismi e le forzature che subentrano e stonano con l’evidente ricerca di profondità/complessità generale: anche il soldato Swofford, infatti, protagonista e narratore in voce over, riflessivo, consapevole e nutrito di buone letture (Camus), tifa per l’annichilimento del villaggio vietnamita travisando in pieno il film di Coppola. Ora, se evidente è l’intento della sequenza in questione (mostrare il lavaggio del cervello subito dalle reclute), i risultati e le modalità di rappresentazione forzano più di un limite e portano alla luce artifici di sceneggiatura piuttosto evidenti e grossolani. La vera forza di Mendes, dunque, ora come in passato, sta nella confezione; nelle sapienti ed elegantissime mani di Roger Deakins, il film viene visivamente e (più nello specifico) cromaticamente tripartito: al “fotorealismo” della prima parte, subentra il bianco accecante del deserto coi suoi spazi illimitati, per poi virare a un buio visionario e antirealistico, con pioggia (nera) battente e fiamme apocalittiche all’orizzonte (i pozzi di petrolio in fiamme): viaggio al termine della notte, buio dell’anima, sonno della ragione o semplice vezzo estetico? Le possibilità interpretative sono molte, tutte plausibili, fatto sta che è una svolta visiva gradita e di sicuro fascino. Poi arriva il rientro a casa, il brusco ritorno alla realtà (anche fotografico/cinematografica) con le somme “morali” da tirare, prima di un ultimissimo colpetto registico di Mendes: Swoff guarda dalla finestra, inquadrato in primo piano di spalle, e mentre la (sua) voce over ci riporta nel deserto, una breve panoramica a destra si inventa una tendina verticale “umana” che chiude il film nella luce accecante delle sabbie arabe. Niente male.
Decalcomanie Jarhead è un film modulare, tre sezioni ed un pezzo, ognuna con setting, registro narrativo e cromatico distinti, che potrebbe far pensare ad una costruzione drammatica tradizionale. Tre atti, coda. Ma non è esattamente così data l'assenza di qualsivoglia progressione narrativa e pure di esplicite dinamiche al livello del sapere. Dall'inizio alla fine lo spettatore non aumenta la qualità né la quantità delle proprie conoscenze sul mondo diegetico (né, diciamo di passaggio, sugli eventi ritratti, ma questa non è una colpa, è cosa altra) e così pure la presenza dei personaggi e la loro prospettiva su quel mondo non subisce mutazioni. Sono, questi, elementi quasi esplicitamente affermati attraverso la (stantia) pratica di Mendes di delegare, come nota in altra chiave Pelleschi qui sopra, la connotazione del discorso a citazioni e calchi, pratica che permette di assumere l'aura significante altrove sviluppata e cresciuta nella consapevolezza collettiva (Full Metal Jacket, Apocalypse Now - film di non-guerra, pervertito qui con l'unico guizzo banale guizzo che sia notato), inseriti in un tessuto narrativo che da essi si trova ad essere definito. In breve, diventa difficile stabilire se il brano mutuato sia stampella del nuovo o viceversa, in un cortocircuito che pare, dato il risultato, essere d'impiccio al film nel suo complesso. Mendes si appoggia ad un cast tecnico di altissimo profilo, il ben noto Walter Murch ma soprattutto Dennis Gassner e Roger Deakins consueti collaboratori dei fratelli Coen, definisce poche coordinate tematiche – a questo punto pare che il film originale sull'addestramento sia stato Gunny, siamo al paradosso – sostenute dall'evidente derivazione biografica (il voice over di Swofford, ironico e al limite del dotto), struttura la chiave cromatica, forse la vera chiave di sviluppo drammaturgico, in un crescendo di astrazione che relega le figure umane nell'isolamento figurativo, pur ancora con debiti nei confronti, almeno, di Three Kings e Sacrificio Fatale di Tolkin (l'apocalisse sul deserto (!) e l'incontro col cavallo). A questo punto ha senso pensare ad un'intepretazione od è sufficiente lo smantellamento formale di un collage in cui le giunture saranno anche carine ma non sono altro che pezze sulla trama lisa?
Sulla carta, poteva non essere una cattiva idea quella di proporre una summa dei temi che hanno animato alcuni famosi film sul Vietnam, in una versione aggiornata all'operazione Desert Storm e, in controluce, alla Seconda Guerra d'Iraq; d'altra parte, era prevedibile che il talento combinatorio dell'autore di American Beauty ricorresse con insistenza ad astuzie ammiccanti, sul piano narrativo come su quello drammatico. Sennonché, Mendes non sa far lievitare il leitmotiv dell'apparato tecnologico che rende obsoleto il ruolo della pedina umana nel produrre la morte su vasta scala; il quale motivo rimane perciò giustapposto alla confusa ridda di toni e di sapori che viene imbandita. C'è un po' di tutto, in Jarhead - un po' di tutto quel che abbiamo visto nel cospicuo novero dei Vietnam movie, dagli aurei maestri fino al terragno Schumacher - ma nessun profilo sa imporsi con autonomo rilievo; tanto meno può dirsi che la cifra espressiva imprima al film un passo significativo. Anzi, alcuni topoi del genere vengono esibiti pari pari, giusto per fare presenza, nel più totale disinteresse per l'effetto che vanno a sortire; con esiti talora paradossali (la sparata dell'immancabile istruttore pazzoide è una scena talmente sradicata da tutto il resto che sembra voler deliberatamente parodiare, à la Abrahams, il modello kubrickiano), talora noiosi (la tiritera sulla nostalgia per le fidanzate che puntualmente tradiranno è quanto di più pedestre si possa immaginare: siamo lontani intere galassie dall'elusiva chiave poetica di Malick, ma anche dalla speculazione intellettuale di Coppola), comunque ampiamente punitivi per un film forse benintenzionato, ma che sarà probabilmente ricordato come perfetto esempio di motore postmoderno imballato.