
TRAMA
Gli ultimi sei giorni della vita di Giovanni dalle bande nere.
RECENSIONI
Difficile mascherare la gioia provata nel trovarsi di fronte a un film come questo, ancor più difficile mascherare il fastidio provato nell'apprendere i giudizi emessi dalla giuria dell'ultimo Festival di Cannes. Fastidio provocato non solo dal fatto che il "Il mestiere delle armi" sia stato impunemente ignorato, ma piuttosto dall'amarezza provocata nel comprendere a scapito di quale altro (misero) cinema capolavori come questi vengano snobbati (salvo poi essere recuperati da qualche storico negli anni a venire, nella speranza che invece sia proprio la storia a logorare la fama di mediocrità come "Dancer in the dark" o "La stanza del figlio" o "Magnolia" o "Il cerchio"…). Appare davvero avvilente che il più importante festival internazionale proclami la superiorità di un cinema piatto, inventaristico, pedante e di superficie, un cinema che non si pone interrogativi e prosegue lungo una linea diritta e priva di ostacoli, tutto spinto verso una passionalità istantanea e concentrata, concepita per trasmettersi osmoticamente e nel minor tempo possibile dallo schermo al pubblico. Il cinema dell'ultimo Olmi procede invece per binari ben più tortuosi, affascina per la complessità che emerge dalle zone d'ombra di una ricostruzione storica di una precisione frastornante.
Sono stati fatti i nomi di Rossellini e Bresson, eppure, nell'osservare certe inquadrature de "Il mestiere delle armi" il nome che emerge con più forza dalla nostra memoria cinefila è senza dubbio quello di Andrej Tarkovskij. Il riferimento più evidente è il suo capolavoro indiscusso, quell' "Andrej Rublev" che non a torto andrebbe considerato una delle vette più alte della storia del cinema e che condivide con "Il mestiere delle armi" prima di tutto la sconvolgente fascinazione visiva di certe atmosfere desolanti e fumose. Ampi spazi che si aprono su terre desolate, cupe, devastate da conflitti perpetui, immagini in grado di cogliere vividamente la cornice storica nella sua essenza primaria, spazi che sono segni di un tempo, di un momento della storia all'interno del quale si muovono le vicende private (ma non solo) della vita dei protagonisti. Altro punto di contatto tra i due film è la radicalità di una messa in scena atta a recuperare le necessarie coordinate iconografiche in grado di rievocare il contesto pittorico e figurativo dell'epoca in questione. Olmi vi riesce magistralmente non solo grazie al calibratissimo, eccelso lavoro fotografico diretto da Fabio Olmi, o alla perfezione di una regia attentissima alla costruzione e ripartizione degli spazi all'interno di ogni singola inquadratura. Ciò che davvero sconvolge sono i volti degli attori (per lo più poco noti), vere e proprie incarnazioni di un'estetica ritrattistica cinquecentesca, volti che sembrano provenire da un'altra epoca, che abbagliano nella loro raggelante, evanescente fisicità, stemperata e assorbita dentro cromatismi fiamminghi, cupi, sokuroviani.
Un film che incanta per la glaciale perfezione con la quale riporta in vita un frammento di storia, che scolpisce nel tempo ogni molecola di luce, ogni cono d'ombra, ogni lineamento del volto, ogni riflesso sulle armature imbrunite, mimetizzate nella notte.
Un cinema assoluto, magico, perché capace di rievocare sullo schermo un sentimento del tempo, dello spazio e del visibile appartenente a un'epoca lontana e perduta.

Puo' considerarsi una sfida, ma di quelle che premiano, la visione della nuova pellicola di Ermanno Olmi. La prima parte, infatti, per chi non e' cosi' avvezzo alla storia da cogliere al volo collegamenti e dinamiche, risulta davvero indigesta. Ed e' curioso e molto personale il modo con cui Ermanno Olmi racconta gli ultimi giorni di vita del capitano di ventura Giovanni de' Medici. Non c'e' una progressione tradizionale degli eventi e uno snodo lineare dei personaggi, ma lo spettatore viene a trovarsi all'interno di frammenti storici e stati d'animo che solo attraverso una visione paziente e priva di aspettative trovano una risposta. La seconda parte, infatti, chiarisce i punti oscuri e, pur se raggelata dalla negazione di qualsiasi coinvolgimento, arriva a colpire per l'assoluta originalita' e bellezza della messinscena. Alcuni momenti sono davvero emozionanti e forti. Come il flashback, che accosta la passione del fugace incontro con la nobildonna di Mantova, al dolore dell'inutile operazione con cui i medici cercano di guarire il protagonista amputandogli la gamba incancrenita. Alla riuscita del film contribuiscono sicuramente la bellissima fotografia di Fabio Olmi e la meticolosa cura scenografica e dei costumi. Ma quello che piu' colpisce e' il controllo della regia. Nulla e' lasciato al caso e appartiene a un progetto che riesce ad essere comunicativo attraverso la perfetta coordinazione degli strumenti cinematografici. E alla fine si esce dal cinema con la sensazione di essere stati testimoni di un punto di vista prezioso. Forse proprio per la sua non conformita' ai ritmi e ai tempi imposti dal mercato che, soprattutto se si parla di guerra e battaglie, tendono a condannarla dopo averla magnificata a livello visivo. Ne "Il mestiere delle armi" la magnificenza c'e', ma altrove.

Nel freddo dell'inverno del 1526 Joanni dalla Bande Nere muore. Una ferita alla gamba destra, la cancrena, il delirio, la resistenza. Morte. Le ultime settimane di vita trascorse nella neve, nell'attesa, nelle immagini della sua esistenza famigliare, la moglie ed il figlioletto, l'addio commovente attraverso una grata, compreso solo dal comandante, gia' in arme. Un' amante, ricca borghese che lo insegue di notte, senza incontrarlo, tra i fumi della nebbia e gli spasmi dei moribondi, nella notte non ha fondo la sua solitudine. L'uomo costretto ad annullarsi, a scavare una strada nella sua vita, figlio illegittimo di un de' Medici, protetto di papa Clemente VII, feroce fin dalla fanciullezza, si congela nel suo statuto di comandante di una falange che tiene in scacco, a protezione del papato, gli Alemanni. E' il suo mestiere uccidere e circuire. Detta lettere all'Aretino per ottenere nuovi falconetti. Gli vengono negati. La discesa in Italia dei reparti di Lanzichenecchi di Carlo V segue la rottura degli accordi da parte di Francesco I di Francia alleatosi con gli stati Italiani (Lega di Cognac del 1526). Nel 1530 la penisola sarà dominio asburgico, potere incoronato dallo stesso papa nella figura dell'imperatore Carlo. Una serie di scaramucce è il conflitto, fughe, strategie, ponti galleggianti tagliati, perché la guerra è solo un accidente, il più evidente e selvaggio che procede dalla suprema creazione della socialità umana, la politica fatta di intrighi, favori, matrimoni e collusioni di banderuole. Joanni sarà giocato, semplicemente, come accade in questi casi. Sarà proprio uno dei falconetti che aveva chiesto al signore di Ferrara a ferirlo durante il tanto agognato e rincorso scontro con le truppe avversarie. Iniziata questa campagna, fatte brunire le armature per attaccare anche di notte, il comandante aveva annullato la sua umanità. Mutilato, consapevole del gioco che si conduce e che ancora ossequia, i mascheroni della stanza in cui giace lo deridono, distorsioni si accumulano, la febbre, "c'e' qualcosa di cui stupirsi, mio Signore?". Un soldato è morto. Olmi congela e depura, luci feroci inchiodano le azioni degli uomini, riflessi, trasparenze improvvise, ombre segano angusti passaggi e grate, in un'atmosfera vicina a quella dello "Andrej Rubliov" tarkovskiano. Ogni elemento è mutilato come il Cristo ligneo, gli uomini, i soldati ridotti ad armature che si muovono per le spinte occulte dei movimenti politici: incipit ed excipit sono il gelido addio, nelle forme della retorica, della compostezza formale, una lettera dei principi europei a condannare l'uso delle armi da fuoco. Pare derisione, ancor più feroce di quella degli stucchi per Giovanni che si faceva leggere il "Principe": l'ipocrisia, la copertura retorica sono i primi insegnamenti, il mestiere del potere.

“Le nuove armi da fuoco cambiano le guerre, ma sono le guerre che cambiano il mondo”. Olmi si serve del budget da kolossal per immergere, con precisione filologica ed in modo incomparabile, nei luoghi, usi e costumi di un’epoca: gira, senza l’ausilio degli effetti speciali, nei luoghi storici originali (Mantova, Ferrara), li esalta con la fotografia (del figlio Fabio) e le organizzazioni spaziali eizensteiniane dei corpi ricoperti dalle armature. I campi lunghi tolgono il fiato, la cura per il dettaglio sorprende. Al racconto è intercalato una sorta di coro greco “brechtiano”, con nomi illustri che s’esprimono in un aulico linguaggio arcaico: è l’unica nota “intellettualistica” ed artificiosa in una pellicola che canta il valore di un uomo (Giovanni De Medici) simbolo di un’epoca al tramonto, icona dell’onore fra vigliacchi, invasati, mercenari, eretici, puttanieri e politicanti (dice il Machiavello: “La politica conta più dell’esercito”). Devoto e caparbio, Giovanni conosce il mestiere perduto del vivere e del morire (il perdono sul letto di morte, la lunga agonia senza palliativi), ma rimane schiacciato, come quasi tutti i personaggi di Olmi, dal processo storico e sociale disumanizzante (è sintomatico che Giovanni rimanga ferito nell'imboscata di un falconetto, simbolo della tecnica che sopravanza l’uomo). La macchina del tempo di Olmi dà esperienza diretta senza ricorrere alle psicologie, ma giocando sui silenzi loquaci, quelli dei bambini che osservano attoniti gli orrori compiuti dall’adulto, quelli (alla Bresson) della coscienza di un eroe che scorge i fantasmi della moglie, del figlio e dell’amante abbandonati. Una cronaca rosselliniana che rischia, a tratti, di cadere nella fredda stilizzazione (dal coro all’estenuante agonia finale), ma che ritrova il generoso calore della realtà di notte, sotto la neve, in mezzo alla nebbia, nell’incanto dei paesaggi, delle fortezze e dei suoi affreschi, di fronte al coraggio e la fermezza di un uomo.

Le avanguardie di Giovanni dalle Bande Nere, stremate dal freddo e dalla fatica, entrano in una chiesa abbandonata; scorgono nel disordine un imponente crocifisso in legno, allettante e "proibito". I soldati lo issano in alto con una corda e amputano con un'ascia le braccia inchiodate del Cristo. Giovanni, sopraggiunto, inorridito mozza di netto la testa dell'esecutore; gli altri saranno impiccati più tardi. Come un capitano che tenta di fermare i marinai che saltano giù dalla nave che affonda, Joanni, rappresentante di un mondo cavalleresco ormai al tramonto, si ritrova sempre più solo e vicino alla morte che si appressa inesorabile. Le "braccia di Dio"_ la Provvidenza _ non guidano più le braccia eroiche dei cavalieri, ligi a un codice morale fondato sulla fede e l'eroismo. La "politica" ha scalzato Dio come guida delle azioni umane, e l'arma da fuoco ha spazzato in un sol colpo tutti i valori portanti del mondo medievale: ora anche l'essere più mediocre, più falso, più debole (il generale alemanno Frundsberg di lì a poco dovrà tornare in patria per motivi di salute), può decidere le sorti di una battaglia, di una guerra, dell'ordine del mondo intero. Machiavellismo", diplomazia, accordi segreti, parole; al posto di duelli, eroi, azioni, fedeltà. Giovanni de' Medici, stupido e visionario come Don Chisciotte, continua a vedere ciò che non c'è (più) anche nella quiete di solito rivelatrice dell'agonia, imputando l'esito disastroso dello scontro, nonché del suo futuro, agli ineludibili interventi della provvidenza, davanti alle ipocrite facce dei capetti delle fazioni italiane, mulini che vanno dove li guida il nuovo vento, quel vento sporco che sradica gli ultimi tenaci alberi piantati con onore e coraggio.

In una pianura desolata quanto il Calvario, il capitano de' Medici ritratto da Olmi, tradito dai suoi alleati e condannato ad un'implacabile agonia, è un fin troppo evidente doppio di Cristo. Fin dalle primissime battute il regista ricorre ai toni ed agli espedienti narrativi tipici delle sacre rappresentazioni e degli affreschi medievali: presenta ogni personaggio indicando con una didascalia nome e date di nascita e morte, associa ad ogni figura un oggetto caratteristico (l'armatura brunita per Ioanni, i panni per sua moglie, il libro di Machiavelli per l'Aretino, il cappio d'oro per il generale Frundsberg, il fatale pezzo d'artiglieria per il duca di Ferrara) ed impone alla messinscena una nota disincarnata e cupa, da tragedia del venerdì santo, assente solo nelle sequenze di corte, lo splendore delle quali è osservato come lampante indizio di decadenza morale. L'intento, piuttosto chiaro, è fare apparire il giovane protagonista come un Redentore la cui opera è puntualmente frustrata, un Messia destinato ad essere abbandonato dalla propria gente, un San Giorgio che combatte contro il serpente della modernità per riaffermare i valori della nobile arte bellica dei padri: questo suo anacronistico rigore verrà inevitabilmente a scontrarsi con le magnifiche sorti e progressive propugnate (è il caso di dirlo) dalla tecnica rinascimentale, grazie alla quale i soldati non si scontreranno più, mireranno e basta.
C'è qualcosa di inestricabilmente ambiguo e difficilmente sopportabile in questa esaltazione, profondamente cattolica, di un implacabile mercenario: alla fine, viene da chiedersi per quali aspetti la guerra "antica" fosse preferibile a quella "nuova" (posto che un simile paragone abbia una ragione d'essere). La tecnologia bellica ha incrementato, ad esempio, il numero delle vittime civili, ma questo, nel film, non c'è: la gente comune è anzi ignorata o considerata con disprezzo, come i soldati che si scaldano "empiamente" bruciando il crocifisso e la nobildonna che cerca di parlare un'ultima volta al protagonista per chiedergli di "raccomandarla" presso il di lei marito. Piuttosto che per questi aspetti, e oltre agli scontati, visto il calibro del regista e dei suoi collaboratori, pregi figurativi e filologici, "Il mestiere delle armi" sembra memorabile per l'intelligente e amara riflessione sulla valenza distruttiva della rappresentazione e, per estensione, dell'opera d'arte. I veleni della politica, le strategie militari, le considerazioni "machiavelliche" sulla fedeltà dei mercenari sono la cifra caratteristica dell'intreccio, e a più riprese Olmi dimostra come il destino degli uomini sia deciso tanto sul campo di battaglia quanto nelle stanze private dei politici: si tratta di una pratica ben più antica e consolidata dell'uso delle armi da fuoco, destinata ad assistere alla nascita di ben più terribili congegni di morte. Del resto, il falconetto che ferisce Ioanni compare "alla ribalta" in seguito al sollevarsi di un sipario di pietre: un vero e proprio teatro della crudeltà. [Nota a margine: il nome dell'attore che interpreta Ioanni è Hristo. Anafora troppo facile? Forse. È un dettaglio che non c'entra? È vero, non c'entra. Però c'entra…]
