TRAMA
Marc, per terminare il suo nuovo film, si rifugia con un manipolo di fedelissimi a casa di sua zia, in uno sperduto villaggio nelle Cévennes. Ma qui la sua creatività esplode in mille direzioni diverse, gettando la lavorazione nel caos. Per fronteggiare la situazione, Marc inizia a comporre Il libro delle soluzioni…
RECENSIONI
Il cinema di Gondry presenta da sempre un’istanza autobiografica forte: se il primo film interamente scritto da lui, L’arte del sogno (2006), era già un autoritratto sublimato, anche il celebratissimo Eternal Sunshine, - scritto con Charlie Kaufman, di un paio di anni prima - al nocciolo parla lo stesso linguaggio interiore e personalissimo. Che poi parliamo di cinema, ma l’autobiografia è un leitmotiv che riguarda l’opera tutta del francese, dalla capitale produzione di videoclip a tutti i lavori collaterali (corti, documentari eccetera).
Il film precedente a quello di cui trattiamo, Microbo & Gasolina, lo dicevamo nella recensione, era un viaggio nella memoria e un ritorno alle origini di un mondo, di una forma, di uno stile, di un metodo. Scindendosi in due caratteri - Microbo (M sta per Michel?) e Gasolina (G sta per Gondry?), il regista metteva insieme un racconto nostalgico in cui poneva l’accento sull’etica legata alla sua pratica creativa e su quel dualismo che ne è la base: l’arte e la scienza, il bric à brac e la tecnologia, il sogno e la realtà, il cuore e il cervello. Da cui l’identificazione in due personaggi distinti. Con Il libro delle soluzioni il francese per la prima volta abbandona ogni filtro perché non ci sono dubbi che il protagonista lo rappresenti in toto (lui dice al 73%). Né si fa nulla per negarlo, peraltro: Pierre Niney è Gondry con le sue camicie a quadri e le sue nevrosi, l’ansia per un lavoro da conservarsi così come lo si è concepito, il legame fortissimo con la zia che viveva nelle Cévennes (la casa e la famiglia, ché tutto quanto il regista ha concepito trova nelle sue radici la sua quadratura). In più la ciclotimia, che attraversa il suo lavoro di anni, è ormai degenerata in malattia conclamata: quello che, quando esaminavo i suoi video, chiamavo dark side, oggi è diventato un mostro che si affronta giornalmente con i farmaci; quando si ha a che fare con sfide di questo tipo è molto difficile - se il tuo lavoro è impastato in maniera così forte della tua vita - prescinderne. Come dire: se Gondry ha sempre parlato di sé, a maggior ragione per lui diventa imperativo farlo oggi.
Marc Becker, regista terrorizzato dal pensiero che il suo film venga manipolato dalla produzione, si rifugia nella casa della zia Denise con la sua troupe per lavorarci in piena autonomia. Peccato che abbia buttato via i suoi farmaci, che l’impulso creativo che avverte imperioso non vada in nessuna direzione e che quel film che vuole salvare quasi si rifiuta di vederlo. Così cincischia con idee strampalate che si susseguono compulsivamente, tormenta i suoi collaboratori, costruisce una sedia, decide di concepire le musiche in maniera alternativa, si inventa un film-palindromo (Gondry il suo video palindromo, l’ha fatto prima di TeneT) nel cui centro vuole incastonare un’animazione, protagonista Renard, una volpe che fa il parrucchiere (una parentesi che - ironicamente - Gondry pone esattamente alla metà di Il libro delle soluzioni). E, soprattutto, pensa di mettere ordine nel bailamme esteriore ed interiore raccogliendo in un quaderno le soluzioni ai problemi che di volta in volta si manifestano, un altro modo per fingere con se stesso di affrontare i nodi decisivi della lavorazione, di fatto scantonandola.
Ma questo approccio nevrotico sortisce anche degli effetti: Marc ottiene la collaborazione di Sting per le musiche, porta la zia a curare una malattia che stava trascurando e che le poteva essere fatale, sollecita i suoi collaboratori in modi imprevedibili (tanto che la montatrice Charlotte riuscirà a editare il film). Ancora: incontra l'amore e concepisce un figlio. E Gondry è ispiratissino nel dare alla sostanza dolorosa del film una forma leggera e brillante, senza mai dissacrarla o contraddirla, anzi. E nel fare del racconto di questo making of un toccante spaccato della sua filosofia: le idee sono un patrimonio e una rivelazione, costituiscono un impulso che si concretizzerà in materia e forma non necessariamente pre-viste perché creare non è soltanto realizzare un’idea, ma anche combinarla con altre, sperimentarla nelle varianti, adattarla al contingente, sconfessarla nella pratica (che significa riaffermarla sotto altre spoglie). Così le soluzioni annotate nel quaderno sembrano dettami zen profondi e assurdi a un tempo, ma anche oracoli da adattare casualmente alle situazioni (alla maniera delle Strategie Oblique di Brian Eno e Peter Schmidt). E questo film un manifesto che dice del sovvertire le logiche industriali che governano il cinema (le Cévennes vs. Hollywood), sconfessare le macchine oliate della cultura che processano temi e stili secondo canoni abusati e considerare quelli che sono assunti come fallimenti quali atti supremi di libertà, prove di originalità, espressioni coerenti di un talento (geniale) che crede, al di là di ogni parametro utilitaristico e commerciale, nella forza morale della fantasia.