Criminale, Drammatico, Recensione

I MISERABILI

Titolo OriginaleLes misérables
NazioneFrancia
Anno Produzione2019
Durata104'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Stéphane si unisce alla squadra anti crimine di Montfermeil, vicino Parigi, dove regna un clima di tensione e violenza generato dalle bande dei malviventi, il cui unico obiettivo è ottenere il controllo del quartiere.

RECENSIONI

Impossibile parlare di questo film senza far riferimento a Kourtrajmé, il collettivo fondato nel 1994 da Kim Chapiron, Toumani Sangaré e Romain Gavras (il destino li vuole nati tutti e tre il 4 luglio, frequentanti la stessa scuola e vicini di casa di Mathieu Kassovitz), la cui filosofia prevede lavori d’assalto, a zero budget, fuori da contesti borghesi e reattivi nei confronti del cinema tradizionale: primitivi e paradossali, i corti del collettivo (a cui da subito si affilia anche Ladj Ly), immessi in rete, ottengono milioni di visualizzazioni. E un complice, il gruppo, lo trova anche in Vincent Cassel, con Olivier Barthélemy interprete della serie - folle e poverissima - The Wanted Brothers (i due saranno anche protagonisti del primo lungometraggio di Gavras, Notre jour viendra).
Una realtà produttiva vivacissima (che investe anche il campo musicale, la musica rap, in particolare) che conduce nel 2006 al primo lungometraggio, Sheitan di Chapiron (ancora con Cassel), un delirio horror-trash inaggettivabile che sembra evitare scientemente qualsiasi etichetta e mette volutamente in crisi “il bravo critico”; ai videoclip-capolavori di Gavras e al suo secondo lungometraggio (Le monde est à toi); e a questo Les Misérables, a oggi il risultato cinematografico più celebrato (premio della giuria a Cannes, candidato all’Oscar, César come miglior film). Anche se Kourtrajmé nel frattempo non esiste più come collettivo, il legame tra i membri rimane fraterno e di appoggio (anche produttivo) reciproco e incondizionato. Ed è il nome che Ly ha dato alla scuola di audiovisivo che ha fondato e che ospita masterclass del videoartista JR o dell’attrice Ludivine Sagnier (altra presenza costante all’interno della “tribù” e moglie di Chapiron -).
Questa intro non solo per risalire alle radici artistiche del regista, ma anche per sottolineare che i frequenti collegamenti che si fanno con L’odio devono andare oltre la facile deduzione che Les Misérables guardi a quel film.
Il primo corto di Kourtrajmé, Paradoxe perdu, data 1994, un anno prima del film culto con Vincent Cassel: Gavras e Chapiron hanno 14 anni, ma le idee chiarissime, e complice la suddetta vicinanza fisica, Kassovitz lo frequentano già. A dire che i loro lavori si nutrono dello stesso humus, guardano alla stessa realtà, ne condividono ambienti ed energie. Che poi, più che la stilizzazione scorsesiana di quel film decisivo, un altro referente forte per Kourtrajmé (penso ad alcuni video di Gavras, in particolare) potrebbe vedersi nel François Richet di État des lieux (1995) e Ma 6-T va crack-er (1997), opere che nel loro taglio semi-documentaristico e nel modo in cui lavorano sull’adesione delle immagini alle linee musicali, presentano molta affinità con i lavori dei suddetti registi.

 Stress - No Church in the Wild - Les misérables

Il modo in cui il collettivo guarda al reale diventa marca peculiare delle loro opere: ci si cala in contesti conosciuti o indagati a fondo, li si ritrae e, una volta che si è delineato il quadro secondo il verbo verista, ne si forza il punto di vista, esasperandone qualche aspetto, esacerbandone una dinamica, reinterpretandone una caratteristica - rendendola paradossale o assurda -, estetizzando il dato prosaico, mitizzando il racconto che se ne sta facendo, dipingendolo come credibilmente fiabesco o grottesco. Per questo - al di là del corto di Ly da cui nasce questo lungometraggio (e che porta lo stesso titolo), al di là dei suoi primi documentari e dei suoi lavori di docufiction - i prodromi evidenti di questo film sono i videoclip diretti da Romain Gavras, anche solo per il merito di aver portato quella poetica allo scoperto, averne fatto una bandiera e, associandola ad artisti musicali conosciutissimi, averla imposta all’attenzione mondiale. Les Misérables già vive nel video di Stress dei Justice (la costruzione del percorso, la banlieue in fiamme) o nella guerriglia astratta di No Church in the Wild per Jay-Z x Kanye West ft. Frank Ocean (il finale enfatico, apoteotico, ir-/realistico; e l’incongruo elefante come il leoncino del film, fuori luogo, spiazzante).
In I miserabili, poi, sottilmente e smaccatamente a un tempo, la riconversione epica della narrazione, tipica di Kourtrajmé, è già insita nel titolo che, alludendo a Victor Hugo, suggerisce la rilettura romanzesca delle vicende (l’opera dello scrittore era ambientata in parte a Montfermeil, scenario del film, sobborgo alle porte di Parigi da cui proviene il regista). La verità la si può dire in molti modi, insomma, anche scansando i cliché del realismo ortodosso, e cambiando angolazione: perché è in questo modo che i luoghi comuni si dissipano e le sfumature emergono. Perché Ly - e lo fa dire ai suoi personaggi - vuol mostrare come, dall’Ottocento ritratto dal romanziere, poco sia cambiato: oggi Gavroche si chiamerebbe Gaveroche e Causette diventerebbe Côsette, si sono africanizzati accenti e pronunce, ma i proletari di Montfermeil vivono tempi similmente crudeli.

Esulta la Francia per la vittoria dei mondiali di calcio ed esulta la seconda generazione degli immigrati facendo sventolare il tricolore, ché se vivono con la nazione dei conflitti è proprio per il loro sentirsene corpo e carne viva, elemento costitutivo, senza condizioni o distinguo. Intanto i poliziotti si muovono per le strade del sobborgo come sceriffi, un atteggiamento brutale e pragmatico che ignora la legalità, impone agli sbirri condotte omogenee («se non c’è squadra si è soli») e mal tollera le problematizzazioni e i ragionamenti sfaccettati dei neofiti (Stéphane, il solito straordinario Damien Bonnard, incarna anche lo spettatore che, calato bruscamente nel contesto, si appella alle sue convinzioni, a principi di condotta civile che entreranno in crisi a contatto con una realtà complicatissima). Il film disegna il quartiere come una scacchiera: su di essa Ladj Ly muove i personaggi-pezzi, tratteggiandone i caratteri, dipingendone contesti in successione logica, mettendo progressivamente insieme un quadro che scruta anche dall’alto: ecco una tecnica piegata alla narrazione, perché qui il drone è pienamente diegetico, è l’occhio che tutto (e troppo) vede, ribaltando - e quasi reagendo - a quello consueto dell’autorità “divina” che controlla e punisce (non è un caso che Buzz, il proprietario del drone, sia interpretato dal figlio del regista). Su questo piano così tracciato si innesta la narrazione di una caccia al ladruncolo che diventa una drammatica caccia al testimone: fatti tutti davvero accaduti e qui ricomposti in un unico racconto messo in scena senza giudizi, senza prese di posizione, con sguardo neutrale (meglio, con pluralità di sguardi), nella consapevolezza che è facile vivere serenamente nei quartieri borghesi, dove il benessere ammorbidisce ogni possibile contrasto; in periferia la convivenza è possibile solo attraverso continue negoziazioni, compromessi, rifacendosi a un’etica che non può essere dettata astrattamente dai codici, ma suggerita da circostanze concrete che parlano di microcriminalità, spaccio di stupefacenti, prostituzione. E dove al diritto scritto fa riscontro quello concreto e umorale di un “sindaco”-moderatore. In una zona in cui lo Stato è presente solo attraverso la BAC (Brigade anticriminalité), il massimo obiettivo è il mantenimento del precario status quo.

È allora davvero tagliente lo spaccato sull’intimità di Gwada, il poliziotto nero: un interno familiare, il suo, uguale a quelli che lui stesso visita quotidianamente, una madre con cui ancora convive, che parla solo la lingua natia e veste con gli abiti tradizionali. E un pianto che dice del conflitto interiore che, da agente, l’uomo vive ogni giorno. Perché non ci sono innocenti o colpevoli: in questo apologo miserabili sono tutti, perché tutti in maggiore o minore misura vittime di un sistema politico marcio che ha reso le banlieue ambienti infiammabili, al di là di quella che è la narrazione consueta che i media ne fanno (di qui la citazione di Hugo:«Mes amis, il n’y a pas de mauvais hommes ou de mauvaises herbes, il y a juste de mauvais cultivateurs»).
Ma la forza del film sta anche nella straordinaria capacità di Ladj Ly di rendere la complessità del discorso attraverso una scrittura lucida e spontanea e un gesto registico virtuoso e diretto a un tempo: e nel saper modulare, come da premesse (il discorso sulla poetica del collettivo), il registro realistico tra il verismo e la sua stilizzazione. Così l’ambientazione circense ha una nuance quasi fiabesca, il capo gitano diventa un orco, la rivolta dei bambini è una sorta di violenta guerre des boutons, Issa, il piccolo ladro, si fa via di mezzo tra un supereroe e Masaniello. E l’epilogo, che resta aperto, se da un lato invita alla presa d’atto e alla riflessione su uno stato di cose che perdura, dall’altro suona come una premessa al romanzo eroico, alla leggenda sulla vita ribelle dell’Issa adulto.