Documentario

GRIZZLY MAN

Titolo OriginaleGrizzly Man
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2005
Durata103'
Sceneggiatura

TRAMA

Racconto della storia di Timothy Treadwell, l’attivista per i diritti degli animali che ha vissuto per tredici anni fra gli orsi grigi del parco nazionale d’Alaska.

RECENSIONI

Nella grandiosità dei sogni umani si cela un fondo di ottusità. E nel cuore dell’ottusità brucia un piccolo, inestinguibile delirio: creare un nuovo mondo, fondare una realtà estranea alle regole ricevute e ai limiti imposti, un territorio in cui reale e immaginario si compenetrino così profondamente da renderne impossibile la separazione. È esattamente in questo luogo che Werner Herzog ha piazzato la macchina da presa fin dal suo primo lungometraggio (il prometeico, stupefacente Segni di vita), filmando con febbrile tenacia e ascetico ardore veri e propri paesaggi dell’anima. Ennesima incursione nei territori della megalomania, Grizzly Man non fa eccezione, anche se stavolta non è il cineasta tedesco a portare alla luce immagini mai viste (come aveva fatto nell’immediatamente precedente e bellissimo The White Diamond), ma Timothy Treadwell, protagonista del documentario e artefice del delirio di cui sopra. Per tredici anni, dal 1991 al 2003, Treadwell ha passato le sue estati in Alaska a diretto contatto con i giganteschi grizzly, convincendosi progressivamente di essere il difensore di quella terra e dei famelici orsi. Convinzione totalmente infondata, poiché di fatto la caccia di frodo in Alaska è pressoché inesistente e la popolazione dei grizzly è effettivamente forte e stabile. Quello paventato da Treadwell, insomma, è un pericolo inventato, una costruzione mentale che risponde a esigenze tutte sue, alla necessità di dare un senso alla propria esistenza. La creazione di un mondo immaginario: pura materia herzoghiana. Nelle ultime cinque spedizioni, smarrito quasi del tutto il legame con la realtà, Treadwell si è portato dietro un paio di telecamere accumulando cento ore di girato, tra le quali immagini di una bellezza incorrotta e misteriosa (le zampe di una piccola volpe che frusciano sul tetto della tenda, campi vuoti carichi di un fascino segreto e indecifrabile) o di tremenda e inaudita ferocia (la lotta tra due orsi per il diritto di corteggiare la femmina più ambita, l’attacco mortale – soltanto audioregistrato - di un grizzly allo stesso Treadwell e alla sua compagna). Tuttavia Herzog non si limita ad assemblare questo materiale e a disporlo in ordine cronologico, ma lo manipola violentemente, alternando le immagini originali a interviste fatte ai soccorritori, ecologisti, studiosi e al medico legale che ha dovuto ricomporre i resti smembrati dei due cadaveri. E, soprattutto, lo attraversa con un commento “carsico” letteralmente devastante: entrando e uscendo dal flusso delle immagini, inabissandosi tra un’inquadratura e l’altra per tornare prepotentemente in superficie, la voce over di Herzog irrora le riprese di Treadwell dall’interno, facendone straripare tutta la sotterranea contraddittorietà. Sibilando considerazioni trancianti sulla visione ingenuamente sentimentale di Treadwell e al tempo stesso dichiarando una potente fascinazione per il suo desiderio di superare i limiti umani, Herzog neutralizza il giudizio sulla persona e sull’insensatezza delle sue azioni, concentrandosi invece sulla dimensione interiore dell’impresa. Puntata verso Treadwell, la lente della telecamera si trasforma in strumento di confessione e sfogo, dando vita di volta in volta ad autoritratti patetici e consolatori ma anche disperati e impietosi, lasciando addirittura spazio a invettive tuonanti contro le autorità del parco. È questa oscillazione tra diario intimo e documentario, tra angoscia ed esaltazione a rappresentare qualcosa di assolutamente inesplicabile e a catturare l'attenzione del cineasta tedesco, nuovamente alle prese con una figura incapace di dominare le proprie irrealistiche aspirazioni e i propri ottusi, deliranti, maledetti sogni. Herzoghianamente.

"Grizzly Man" è un documentario su Timothy Treadwell, l'uomo che volle farsi orso, un attore mancato rinato ambientalista che passò tredici estati tra il Canada e l'Alaska convivendo con i pericolosi orsi Grizzly, sotto gli occhi di una telecamera e con la compagnia saltuaria di qualche amica. Il suo approccio con gli animali non è scientifico, ma puramente emotivo. È come se attraverso la vicinanza fisica, perlopiù discreta, cercasse di stringere un rapporto di amicizia, basato sul reciproco rispetto, con i pericolosi predatori, dimenticandone la naturale aggressività. Fino al tragico epilogo, che vede Treadwell e la sua amica divorati dai feroci carnivori. Werner Herzog, chissà perché affascinato dal narcisismo di Treadwell (sì, vabbè, il senso di sfida nei confronti della natura, ma non è l'aspetto primario del personaggio), alterna materiale video girato dallo stesso ambientalista americano con interviste realizzate oggi. Il ritratto che ne deriva è per certi aspetti interessante (sicuramente è più originale uno sciroccato come Treadwell del solito etologo), ma vaga tra la celebrazione e la critica senza prendere una direzione precisa. Herzog sembra porsi in modo imparziale, alcuni commenti raccolti sono a favore, altri di condanna. Non pare giudicare l'amore di Treadwell per gli orsi, ai limiti del patologico, e non mette in discussione l'odio per la civiltà derivante principalmente da un'incapacità di comunicare, di accettarsi e di mettersi in discussione. Però non risparmia nemmeno frecciate improvvise, con cui prende le distanze dalle interferenze di Treadwell con il corso naturale degli eventi, e arriva a dichiararsi pessimista nei confronti dell'indifferenza della natura al genere umano. Peccato che tutto ciò passi attraverso un commento fuori campo, dello stesso Herzog, pedante e privo di leggerezza, in cui il non detto diventa una mancanza e il detto assume fastidiosi toni predicatori. Nel finale lascia intendere che più degli orsi e del loro habitat il documentario si è rivelato un approfondimento della natura umana, e infatti mostra lati infantili, nevrotici, malati di Treadwell, ma con un distacco che non si capisce bene se sia luciferino (della serie "guardate dove possono portare depressione, abuso di alcol e droghe!") o in sintonia con i lati oscuri del personaggio.

Werner Herzog, dopo la nutrita e ricca carriera, conclude l’esplorazione del tradizionale oggetto “film” e appare impegnato a superarne lo steccato, ibridando registri, sperimentando rischiosi accostamenti - fiction e non fiction -, posizionandosi studiatamente controcorrente per solcare nuovi territori. La sfida nelle sue mani risulta, nello specifico, la creazione di nuova sostanza cinematografica da immagini archiviate e preesistenti, filmate dalla mano dilettante di Treadwell, che attendono di venire plasmate all’uopo per assumere forme inconsuete e meravigliose; il regista si nega per lunga parte addirittura il diritto al girato e procede a passo d’orso, giocando a mosca cieca con la celluloide a disposizione - circa 100 ore -, per narrare l’ennesima vicenda estrema di un personaggio al limite. Herzog non bada ai purismi e imbroglia in maniera sfacciata: attraverso la voce fuori campo commenta perennemente la visione, la contamina con opinioni personali, si mette apertamente in mezzo (il dialogo con Jewel) e decide cosa mostrare e cosa tacere, non di rado mancando il bersaglio - il violento turpiloquio del protagonista, contro la lobby dei guardiaparchi (!) e il Governo americano, viene sfumato in un’autentica manipolazione. La nube oscura che avvolge Treadwell, mai permettendo interamente di decifrarlo, rivendica una potenza significativa di per sé e il commento costante del regista - che metafora dinsinvoltamente perfino sul concetto di Cinema - rischia di attutire il colpo della problematica mitigandone il fascino magnetico. Peccato, perché Grizzly Man è un lavoro incisivo che vive di squarci mozzafiato, spietato nel costringere alla complessità della vicenda, sempre sul filo (Treadwell è un eroe straordinario oppure uno psicotico esaltato, a scelta, nelle grinfie di un dubbio più arduo di come appare), che vede nell’eventuale soluzione una trappola da evitare con cura. Nel dialogo tra il regista/vivo e il protagonista/morto, Werner si permette di assecondare Timothy oppure di prenderne le distanze, ricreando uno scambio peculiare e trascendente dalle cose umane. Oggi il tedesco, malgrado tutto, mostra la tronfia assurdità dell’ambizione, spazza via locuzioni precostituite e non mette a freno l’implacabile furia iconoclasta. Tanti i momenti preziosi e commoventi: il pianto dell’attivista per la morte di una volpe, l’unica inquadratura regalata al volto della sua donna, appena prima della fine, infine la lotta spaventosa tra gli orsi che, agli occhi del loro custode, spezza la visione romantica della Natura e ne riafferma la brutalità primitiva.