TRAMA
1923: mentre sta volgendo al termine la Guerra civile irlandese, nell’immaginaria isola irlandese di Inisherin la lunga amicizia tra il violinista Colm e l’umile mandriano Pádraic s’interrompe bruscamente da un giorno all’altro senza apparente motivo.
RECENSIONI
Can’t I hear the wail of the banshees for me,
as far as I am from me barren island home?
-The Cripple of Inishmaan
Scrive Patrick Lonergan in un volume del 2012, purtroppo inedito qui da noi, dal titolo The Theatre and Films of Martin McDonagh: «Non sappiamo ancora di cosa parli The Banshees of Inisheer. McDonagh ha dichiarato che non crede che l’opera valga granché, ma spera di riscriverla e di poterla produrre prima o poi. Ciò che le varie voci che circolano sull'opera suggeriscono è che sia anch'essa incentrata sui miti irlandesi […]» [1]
Le voci che circolavano sull’ultimo tassello di quella che aspirava a essere la Trilogia delle Aran (The Aran Islands Plays) ne datavano l’ambientazione probabile intorno agli anni Cinquanta, con al centro della drammaturgia uno scrittore che provava ad andare a fondo sulla Rivolta di Pasqua (Éirí Amach na Cásca, in gaelico), avvenuta nel 1916. Sappiamo che in seguito la struttura e i temi portanti dell’opera di McDonagh si sono modificati profondamente: oggi la scena si è spostata nell’aprile del 1923, sul finire della guerra civile irlandese, che infatti terminò il 24 maggio dello stesso anno, con il cessate il fuoco, dichiarato dal comandante militare degli irregolari, Frank Aiken, già a capo della Fourth Northern Division dell’IRA, durante la guerra d’indipendenza irlandese. Considerando le date approssimative dei due play della trilogia mancata di Aran, ovvero intorno al 1934, per The Cripple of Inishmaan, e il 1993 circa, in un periodo appena antecedente rispetto al primo cessate il fuoco dell’IRA, per quanto riguarda The Lieutentant of Inishmore, la versione cinematografica di The Banshees of Inisherin rappresenta, da un punto di vista temporale, la storia più antica, sorta di fondamenta costruite a posteriori: sguardo proiettato verso il futuro come pure, forse, ripensamento critico del proprio percorso artistico. Se, come nota Lonergan, il salto di sessant’anni tra la prima storia e la successiva rende pienamente compiuto, almeno a livello culturale, o per certi versi, vista la posizione ironica e iconoclasta di McDonagh, sub-culturale, lo scarto tra tradizione e modernità, la decisione di tornare indietro potrebbe indicare una volontà di rifondazione e, nello stesso momento, la ricerca, onesta, anche commovente, della Memoria, nel senso più profondo che il concetto possa assumere: un altro passato è possibile… o meglio, un altro futuro è possibile, se attraverso lo sforzo di re-immaginazione fictional, si è in grado di disarticolare il nonsense in piccoli grumi relazionali, ravvisabili ancora in uno stadio patologico non per forza irreversibile.
È tuttavia interessante notare come la Easter Rising, evocata dal progetto teatrale originario, sia citata anche nel più recente film sulla storia d’Irlanda, passato nelle nostre sale, quel Belfast che è stato, quasi per eccesso di pudore, derubricato ad accademica autobiografia e che invece offre, come insegnava Shakespeare, uno sguardo obliquo – il più obliquo degli sguardi, insieme a quello dei folli, cioè quello di un bambino – sulla tragedia di una Nazione e della sua identità (o ricerca di identità, qualunque cosa significhi, dato il prezzo di sangue che è stata costretta a pagare). Ciarán Hinds, nel ruolo del nonno di Buddy, citava infatti due versi della poesia di W. B. Yeats, Pasqua, 1916, e in particolare: «Un sacrificio troppo lungo/ Può fare una pietra del cuore (Too long a sacrifice/Can make a stone of the heart)». Altre linee, altrettanto evocative e allegoriche, compreso il noto paradosso – se così è lecito definirlo – sulla bellezza terribile che è nata, risuonano rispetto a Gli spiriti dell’isola, con l’azione spostata dalla concreta Inisheer, la più piccola delle isole Aran, all’inesistente Inisherin (l’isola di Erin, antico nome che indica l’Irlanda stessa), secondo un processo che il drammaturgo, sceneggiatore e regista aveva già sperimentato in Tre manifesti a Ebbing, Missouri: «I cuori da soli con un solo proposito/ estate e inverno sembrano/ incantati ad una pietra/ che turba il vivo ruscello./ Il cavallo che viene dalla strada,/ il cavaliere, gli uccelli che svolazzano/ da nuvola ad altra nuvola/ minuto per minuto cambiano». [2]
E del resto lo stesso Shakespeare, attingendo dalle più disparate fonti, non si curava troppo della congruità ambientale delle proprie scelte: «nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso», scriveva John Donne e dunque qualunque isola, o qualunque cittadina inventata del Missouri (o qualunque Messina che non assomiglia granché a Messina), è adatta a impostare un racconto che ha al centro, e sopra ogni cosa, una disamina sull’uomo.
Ravviso però almeno una ulteriore ragione capace di sostenere la scelta di McDonagh, ovvero la volontà di far compenetrare all’interno de Gli spiriti dell’isola rimandi delle precedenti due opere della trilogia (in)compiuta, in modo da rendere quest’ultimo lavoro più una sintesi esegetica che un epilogo; sono stille, da un certo punto di vista inoffensive, da un altro, cemento fondativo di un lungo percorso teorico, avviato addirittura con la feroce bellezza – una soap-opera gotica, la definiva Fintan O’Toole sull’Irish Times – di The Beauty Queen of Leenane (il suo primo lavoro, appartenente a quella che viene considerata la Leenane Trilogy, insieme a A Skull in Connemara e The Lonesome West, ormai unico testo, quest’ultimo, di facile reperibilità in traduzione italiana).
Dunque la maschera teatrale che ciondola nella casa di Colm Doherty, e che Padraic per un attimo si appoggia sul viso, restituisce la sensazione del déjà vu simbolico, richiamando il personaggio di Billy, l’attore fallito di The Cripple of Inishmaan, e più in generale la critica che McDonagh muoveva al vero fattuale di Robert Flaherty, col suo Man of Aran, rispetto alla verità fittizia, ma tangente a una forma di autenticità rispettosa e, per assurdo, meno artificiosa, insita nella rappresentazione che non ha paura di mostrarsi per ciò che è.
In varie declinazioni, è un tema ricorrente nel teatro novecentesco; dalla passione di Tom Stoppard per la teoria del caos («[La matematica del caos è] una riconciliazione tra l'idea che le cose non siano casuali, da un lato, e che siano imprevedibili, dall'altro.» [3], riportato in A Talk with Tom Stoppard, di John Fleming) alle considerazioni di Pinter, esplicitate in apertura del discorso di accettazione del Nobel: la verità drammaturgica è elusiva per natura e cionondimeno l’indagine su di essa non può che essere costante (ineludibile).
E ancora, la ricerca spasmodica di notizie fresche di giornata, più vicine al pettegolezzo che alla news vera e propria, della signora O'Riordan, ricorda la buffa cialtroneria gossippara (che, come spesso accade agli uomini di McDonagh, nasconde una inaspettata profondità e la capacità, ignota a gente più ponderata di lui, di fare la cosa giusta) di Johnnypateenmike, di nuovo da The Cripple of Inishmaan. Il nome del personaggio interpretato da Colin Farrell – bravissimo in un ruolo assai complesso, anche soltanto a livello mimico e nella monotonia espressiva, appoggiata sulla voce – è ripreso da The Lieutentant of Inishmore. Non è la prima volta che il regista e sceneggiatore – la doppia qualifica è quanto mai necessaria, data la densità magica della sua scrittura – gioca con i nomi propri; lo aveva fatto, giusto per portare un esempio, in In Bruges quando, dopo aver richiamato il Tottenham, citato in The Dumb Waiter, per un rigore parecchio dubbio, segnato proprio dagli Spurs contro l’Aston Villa, prendeva i cognomi di due interpreti di una versione televisiva de Il calapranzi e li usava come pseudonimi per Ray e Ken, già monosillabici come i loro omologhi della pièce di Harold Pinter. L’aspetto onomastico, ragionando sull’opera filmica in questione e sul rapporto con l’opera omnia, cinematografica e teatrale, di Martin McDonagh, è interessante perché il protagonista de The Lieutentant of Inishmore viene appellato come Mad Padraic. In effetti è un ceffo che strappa le unghie dei piedi altrui, avendo però cura di dedicarsi a un solo piede, per non causare una vera e propria infermità, ma piuttosto una temporanea zoppia! A questo Padraic, quello di The Banshees of Inisherin, invece vengono lanciate dita – delle mani – contro la porta: l’automutilazione dell’artista – insoddisfatto, fallito, tornato a casa, giocoforza, tale e quale a Billy – come rappresaglia per un’ingiustizia non subita. Parlando di Wee Thomas, centrale nello sviluppo del plot, Mad Padraic ci racconta come il suo gatto «cacava in un angolo, quando eri ubriaco e ti dimenticavi di farlo uscire, e il giorno dopo se ne vergognava, come se fosse colpa sua, povera creatura» [4]. Fin troppo semplice, e d’altra parte opportuno, notare le affinità tra il micio e l’asinella Jenny, anche valutando il rapporto quasi simbiotico dei due personaggi con gli animali e, in parallelo, la reazione di fronte a un torto (o un possibile torto) da loro subito. Solo che questo Padraic non è mad, ma viene considerato dal suo migliore amico, e teme di essere, dull, termine che nell’adattamento italiano viene correttamente tradotto come “noioso”, ma che, rispetto a “boring” – utilizzato cinque volte, mai direttamente in uno scambio con Padraic né da lui stesso – o “tedious”, aggiunge una sfumatura che mi è sembrata rilevante. Nella sceneggiatura, l’aggettivo ricorre quattordici volte, mentre in un’occasione troviamo il sostantivo: dullness. Una simile riproposizione non può essere casuale. Se si pensa a Shining, è quasi immediato il ricordo del celebre refrain battuto compulsivamente da Jack Torrance alla macchina da scrivere: «all work and no play makes Jack a dull boy». È l’innesco della follia, il turning point oltre il quale la mente dello scrittore sprofonda nel delirio senza possibilità di risalite.
Il termine dull compare anche come raddoppio, dull dull, in En attendant Godot, pronunciato da Pozzo, un personaggio che non passa di lì per aspettare (inutile insistere sul cosa, perché il punto è che l’atto stesso dell’attendere è svuotato di qualunque significato univoco), ma sul quale il trascorrere del tempo sta infierendo.
McDonagh possiede però uno sguardo umanista, che può provare a invertire il tempo – che è anche un tempo dell’attesa, l’attesa della fine della guerra civile, l’attesa di qualche vecchio sogno abbandonato oltre il mare – e a non far diventare del tutto matto questo Padraic. Serve che si intervenga, cinematograficamente, ovvio, sul despair di cui Colm non si vuole/sa occupare; serve, magari, che si sovverta la citazione da La vita è sogno, di Calderon de la Barca, che Beckett riporta in un suo scritto su Marcel Proust e che, in un certo qual modo, circoscrive la poetica dell’assurdo e il suo stretto nichilismo persino meglio della nota definizione di Camus («il divorzio tra l’uomo e la sua vita […]»): «il delitto maggiore dell’uomo è essere nato.»
Nella sua uscita di scena, Padraic non ha ancora perdonato, ma non è neppure completamente impazzito, pur avendo compiuto un gesto crudele verso il suo ex migliore amico. Perché lui è in fondo simile a Babbybobby di The Cripple of Inishmaan, nelle parole di Billy: «Be’, ce ne sono molti qui, di storpi come me, solo che non si nota all’esterno. Però il fatto è che tu non sei uno di loro, Babbybobby, e non lo sei mai stato. Hai dentro di te un cuore gentile». [5]
Per sanare conflitti senza patria e senza scopo, imbastiti senza alcuna ragione sensata, tanto a livello individuale, quanto dal punto di vista di un intero Paese, serve tempo; per ritrovare quei barlumi di pietà e di compassione, da intendere in senso non religioso, serve tempo, e se i due amici sapranno ritrovare l’umanità perduta, lo decideranno «along the way», come sosteneva Mildred Hayes nell’ultima battuta di Three Billboards Outside Ebbing, Missouri. Occorre allenare la gentilezza che non si completa nella semplice niceness, ma riguarda, anche se Padraic e Colm si incartano, una caratteristica propria della forza creatrice degli artisti, di un artista in particolare: non Mozart e neppure Borvoven (!), bensì William Shakespeare. Gentle è infatti l’aggettivo che sceglie Ben Jonson per indicare il Bardo nella dedica ai lettori del First Folio: «It was for gentle Shakespeare cut: Wherein the Grauer had a strife with Naure, to out-doo the life […]» [6]
Siobhan, unica figura femminile di spessore – colorata, più la Mary O’Donnel di Henri che un volto assorto alla Roderic O’Conor – del dramma, come Maired Claven in The Lieutentant of Inishmore, decide di salpare: il suo richiamo all’azione è però di segno opposto, salvifico e non distruttivo.
Dominic non ce l’ha fatta, non ha resistito alla morte del sogno (di fuga da una realtà abusante; lui che, da fool, possedeva la lucidità per riconoscere il vero meglio di ogni altro individuo, là a Inisherin). Dominic è un ragazzo abbastanza saggio da fare lo sciocco, direbbe Shakespeare per bocca di Viola [7]; ma in un modo che suggerisce quasi un’affinità con il buffone del Re Lear, scompare quando il suo intervento di cambiamento sul mondo diegetico/sogno si esaurisce. «And my poor fool is hanged», dice Lear, riferendosi a una possibile impiccagione, ma pochissimo sappiamo invero delle sue sorti. Di Dominic conosciamo invece almeno due snodi: non ha salvato sé stesso, ma ha, con le sue parole dense d’amore – provvidenziali, direi – salvato Siobhan che, in lacrime e scalza sul greto del fiume, già aveva salutato Mrs McCormick… [8]
Colm e Padraic, dal canto loro, si sono messi sulla strada – they move, al contrario di Vladimiro ed Estragone – e alla banshee – o qualcosa che le assomiglia, come presagio di morte umana imminente, in un’isola che non esiste, simile a un limbo di intossicati, di quasi-morti – non resta che osservare la scena, leggermente delusa... [9]: il secondo cadavere, che aveva vagheggiato, non c’è, per ora non ci sarà.
Nota a margine: Martin McDonagh, per un po’ di tempo, da quella famosa sera del 1996, quando senza batter ciglio rispose ‘Yeah, right, fuck off mate’ a Sean Connery, in occasione degli Evening Standard Theatre Awards (è una storia lunga e c’entrava la regina!), è stato considerato un enfant terrible del teatro britannico. Oggi, dopo quasi trent’anni da quella premiazione e dal debutto di The Beauty Queen of Leenane, è per tutti – si spera – una delle più prodigiose penne della drammaturgia contemporanea in lingua inglese. Un appello alle case editrici, quindi: possibile che non si riesca a realizzare un’edizione critica delle sue opere?
[1] «We don’t yet know what The Banshees of Inisheer is about. McDonagh has stated that he doesn’t consider the play to be very good, but he hopes to rewrite it for production at some stage. Yet the various rumours that circulate about the play suggest that it too is focused on Irish myths […]»
[2] «Hearts with one purpose alone/Through summer and winter, seem/Enchanted to a stone/To trouble the living stream. The horse that comes from the road,/The rider, the birds that range/From cloud to tumbling cloud,/Minute by minute change». Il testo e la traduzione sono reperibili qui: urly.it/3tdj8
[3] «[Chaos mathematics is] a reconciliation between the idea of things not being random on the one hand and yet unpredictable on the other hand».
[4] «pooh in a corner, when you were drunk and you’d forget to let him out, and he’d look embarassed the next day then, as if it was his fault, poor lamb».
[5] «Well, there are plenty round here just as crippled as me, only it isn’t on the outside it shows. But the thing is, you’re not one of them, Babbybobby, nor never were. You’ve a kind heart on you».
[6] Tradurre in modo perentorio questa frase comporta l’affaccio su un ambito complesso. Del resto stiamo parlando di Ben Jonson, un drammaturgo la cui unica sfortuna è stata quella di essere nato nella stessa epoca di Shakespeare! Ai tempi in cui la dedica è stata scritta, la parola out-doo aveva di solito il significato di remove. Vi è quindi un intento ironico verso l’engraver (chiamato graver, ovvero Grauer) che avrebbe succhiato via la vita? C’è da dire che proprio Shakespeare usa per la prima volta il vocabolo con una diversa e più moderna accezione e cioè, grossomodo, come sinonimo di surpass; lo fa in Coriolanus, quando scrive he hath in his action, out-done his former deeds doubly. Rimando quindi a sedi più adeguate e a persone più competenti una disamina meglio articolata. In questo frangente ciò che mi interessava sottolineare, perché mi pareva risuonare con il film di McDonagh, era la scelta dell’aggettivo gentle.
[7] «This fellow is wise enough to play the fool, and to do that well craves a kind of wit […] This is a practise as full of labor as a wise man’s art, for folly that he wisely shows is fit. But wise men, folly-fall'n, quite taint their wit.» Viola, in Twelfth Night, Act III, Scene 1.
[8] Martin McDonagh rifugge le semplificazioni. Mrs McCormick può richiamare, secondo una certa iconografia, la figura di una Morte personificata (e il cognome, con il prefisso Mac, concorda con la tradizione). Se però guardiamo, solo per fare un esempio diverso, la banshee dipinta da Henry Meynell Rheam, notiamo come questa figura femminile, vista solo da coloro che sono sul punto di dipartire, assomigli, per età e cromatismo, molto più a Siobhan. Del resto il termine deriva dal gaelico bean più sith: donna-fata o donna delle fate. La ballata di John Keats, La Belle Dame sans Merci, presenta una sorta di banshee: I met a lady in the meads,/ Full beautiful – a faery’s child,/ Her hair was long, her foot was light,/ And her eyes were wild (Ho incontrato una dama in mezzo ai prati,/Era bellissima – figlia d’una fata,/ I suoi capelli erano lunghi, il suo passo leggero,/ E gli occhi selvaggi.)
[9] «watches it all, slightly disappointed...» Si tratta di una didascalia presente in sceneggiatura. Letteralmente è: And MRS MCCORMICK, pole still across her shoulders, watchesit all, slightly disappointed…
La frase successiva, che conclude lo script, indica una distanza tra i due uomini, che diviene più ampia. Ritengo, vista la prossemica, che si tratti di una distanza perlopiù fisica: Padraic si allontana fisicamente da Colm, dopo avergli riportato Sammy. Mi si perdoni la digressione sciocca, ma il nome scelto per il cane, splendido co-protagonista – al pari di Jenny – così determinante per lo sviluppo di parte della storia, è il nome con cui gli amici chiamano Sam Rockwell, ovvero colui che Martin McDonagh ha definito my muse, la sua musa.
Do tuttavia maggiore risalto alla notazione su Mrs McCormick, che mi pare invece sottolineare che qualcosa nel rapporto tra i due si è modificato e non nel senso che la donna avrebbe immaginato/sperato. In un certo senso, Padraic rispetta la volontà di Colm – si allontana da lui, lo lascia finalmente in pace – e il suo rispettare le esigenze dell’amico sancisce la possibilità di riprendere il dialogo.