Commedia, Giallo, Recensione, Sala, Storico

CATTIVERIE A DOMICILIO

Titolo OriginaleWicked Little Letters
NazioneU.K.
Anno Produzione2023
Durata102'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Littlehampton, 1922. Edwith Swan e altre donne della piccola cittadina sul mare cominciano improvvisamente a ricevere oscene lettere anonime. I sospetti ricadono su Rose Gooding, che rischia quindi di finire a processo e perdere la custodia della figlia.

RECENSIONI

È del 1977 il romanzo più celebre di Ruth Rendell, al quale Chabrol si è ispirato per il suo Il buio nella mente (non è peraltro il solo adattamento cinematografico esistente: un film con lo stesso titolo del libro è stato prodotto nel 1986). Si intitola La morte non sa leggere (A Judgement in Stone, in originale) e il suo fulcro risiede nell’ossessione per il disvelamento. La protagonista, Eunice Parchman, ha infatti un difetto fatale che il lettore conosce fin dalle prime pagine, come del resto viene a sapere già nell’incipit del romanzo circa il tragico destino della famiglia Coverdale, dato che l’autrice sceglie di raccontare la storia a ritroso, ovvero a partire dal suo esito funesto, per poi ritornare solo alla fine sulle sorti dell’assassina analfabeta e della sua sodale: «Eunice Parchman sterminò la famiglia Coverdale perché non sapeva leggere, perché non sapeva scrivere. Non c'era movente, non ci fu premeditazione: non ottenne denaro, né sicurezza […] Da sempre, nella sua mente distorta, c'era la convinzione che non sarebbe mai stata in grado di avere successo. Eppure, sebbene la sua amica e complice fosse pazza, Eunice non lo era. Possedeva quella terribile e realistica lucidità dell'atavica scimmia travestita da donna del ventesimo secolo».
Cattiverie a domicilio, il cui titolo originale è Wicked Little Letters, non possiede – né vuole possederla, si capisce – la cattiveria cruda del romanzo di Rendell. La sua protagonista, la mite, devota e tanti altri aggettivi, tutti proiettati verso l’ascesi, Edith Swan, non è caratterizzata da quella specie di alessitimia (da alexis thymos, nel senso del non saper trovare parole per le emozioni che si provano) che, al di là del nervo scoperto del non saper leggere e scrivere, delineava la personalità di Eunice. Edith appare anzi come la donna calata perfettamente nel contesto storico nel quale vive, un contesto che, in provincia – la provincia inglese, in questo caso, il West Sussex – in maniera particolare, guarda con un misto tra preoccupazione e disgusto alle rivendicazioni delle suffragette, e tiene alla forma, esibita a ogni occasione utile, ben più che alla sostanza. Siamo negli anni venti del Novecento e la frizione tra l’essere e il dover essere dà avvio a una trama, basata su fatti realmente accaduti, che è tanto semplice quanto scrigno di riflessioni che ci scaraventano nel presente, in un’epoca cioè in cui ci verrebbe da dire che, no, certe cose non potrebbero proprio più accadere. E invece…

Lo scandalo prende avvio dalla ricezione di alcune missive oscene (molto oscene, fin troppo, se si è pratici di gialli!) proprio da parte della pia donna, Edith. La colpa del misfatto ricade, in quattro e quattr’otto, sulla vicina di casa, irlandese, quindi già un po’ colpevole per diritto di nascita, sboccata, poco incline ad adeguarsi alle norme del vivere stereotipato e civile; insomma: una donna che sembra libera, dunque pericolosa per sua stessa natura. Una paio di curiosità, pensando allo scandalo primitivo: la vera Rose Gooding non era affatto irlandese, ma era nata a Lewes, nell’East Sussex. Anche la questione matrimoniale, che qui risulta la ferita aperta di Rose, intenta a proteggere la figlia, stando alle indicazioni presenti nel censimento del 1921, appare diversa da ciò che emerge dal film di Thea Sharrock. Dorothy (che è Nancy) nacque prima del matrimonio, ma non da padre ignoto.
Il focus sulla forma epistolare, fil rouge di indagini e contro-indagini, è interessante per più di una ragione. Intanto perché, per certi versi, è un topos di genere, adoperato come vero e proprio dispositivo di trama. Agatha Christie, così a suo agio nel rimestare tra le piccole miserie umane, la usa svariate volte, per esempio in  Il terrore viene per posta o in La serie infernale, ma soprattutto nel suo capolavoro, Dieci piccoli indiani. La lettera funge da espediente narrativo, per la versatilità del suo utilizzo (nel caso di Cattiverie a domicilio per spargere veleno, o in modo più appropriato, per calunniare il prossimo), ma soprattutto si esplica in quanto sorta di forma, narrativamente significativa, dell’inconscio. La scrittura, azzardando un’iperbole, tenta di riempire, senza risemantizzarlo da un punto di vista psichico, lo spazio della verdrängung, la cui essenza, scrive Freud, nel 1915, «consiste semplicemente nell’espellere e nel tener lontano qualcosa dalla coscienza». Cosa? Nel caso di Edith, anche se ciò non viene mai esplicitato, perché siamo pur sempre nel contesto di una dark comedy spruzzata di giallo, potrebbe essere persino una costrizione incestuosa (e di sicuro, al di là dell’amara suggestione, un allontanamento forzato dai propri desideri amorosi: questo ci viene rivelato). Il padre padrone, interpretato da Timothy Spall, ribadisce più di una volta la paura di essere considerato un “invertito”, manifestando in questo modo quasi un’omofobia interiorizzata e una propensione verso un atteggiamento prevaricante e violento (che è certo frutto del sentire dei tempi) nei confronti della moglie e della figlia, nonché nei confronti di tutti coloro che gli rammentano una libertà che lui (si) nega.
La scrittura e non l’oralità, sia in La morte non sa leggere che in Cattiverie a domicilio, rappresentano, rimanendo sul piano delle potenzialità del racconto, qualcosa di analogo agli atti mancati – i Freudian slip – ovvero a quegli errori d’azione che ci tradiscono: il cosiddetto ritorno del rimosso. Da una parte la scrittura e l’incapacità di decifrarla condannano la governante omicida più di ogni altra prova a suo carico, dall’altra il mantenimento di una grafia ricercata, perfetta e perfettamente riconoscibile, magari ostentata, sembrano estrinsecare il conflitto nevrotico.
C’è poi, in un dialogo tra passato e presente, che è, come detto in precedenza, una delle costanti del film di Sharrock, la volontà di riportare la forma-lettera ad altre tipologie, più moderne, di accanimento scritto, come quello che avviene per mezzo dell’utilizzo (sconsiderato) dei social network, ritenuti zona franca di odio, accanimento e giustizialismo fai da te, attraverso quegli accerchiamenti virtuali che vengono definiti shitstorm. Su queste dinamiche perniciose e su altre rifletté assai bene, ormai diversi anni or sono, Jon Ronson, nel suo I giustizieri della rete.

Wicked Little Letters si presenta pure come un apologo sulla condizione femminile, in primo luogo grazie appunto all’incrocio delle vicende delle ex amiche, Edith e Rose, l’una manifestazione esasperata delle passioni che l’altra ha imparato a soffocare. Non solo loro, però, perché c’è un altro personaggio che ci mostra, tenendo in controluce le istanze storicamente rilevanti del periodo, dal Sex Disqualification (Removal) Act del 1919 in avanti, la volontà di emancipazione, anche professionale, delle donne. Si tratta della poliziotta, Gladys Moss, per un verso cuore pulsante della storia, con il suo intuito e la capacità di seguire la pista giusta, per un altro giovane donna costretta a mettere davanti alla propria preparazione e professionalità una qualifica che sia denotante. Del resto il suo ruolo professionale viene messo in discussione dai colleghi che continuamente le ricordano di stare al proprio posto e di pensare a come avrebbe agito suo padre, con l’evidente proposito di svilirne i meriti e di attribuire l’assunzione a uno pseudolascito dinastico di matrice maschile e maschilista.
Nessuna traccia, peraltro, dell’agente Moss nella vera storia delle lettere infamanti di Littlehampton: i tempi, oltre la finzione, non erano ancora maturi. Le indagini, che portarono a un esito simile a quello che vediamo nel film, furono condotte da Scotland Yard, nella persona dell’ispettore George Nicholls, inviato sul posto (usò anche lui l’inchiostro simpatico!). E cosa ne fu della colpevole? Le storie paiono sovrapporsi, ma con significati che divergono per sfumature: finanche un grido estremo, ed estremizzato, di liberazione, nel lavoro di Thea Sharrock; una diagnosi, nella storia vera: incapacitated patient.
Giusto così: la Storia parla a sé stessa di una condizione che è opportuno non dimenticare, ma che non ci appartiene più. Cattiverie a domicilio invece vuole guardare all’oggi, per mettere in rilievo ciò che non ha smesso di stridere in una libertà di essere e di agire che diamo per scontata ma che, talvolta, è, ahinoi, entro certi limiti, limiti diversi, ancora un’illusione.