Commedia, Drammatico, Recensione

FRANCES HA

Titolo OriginaleFrances Ha
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2013
Durata86'
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Frances ha ventisette anni e l’ambizione di diventare ballerina. Nonostante i molti tentativi infruttuosi, occupa ancora il ruolo di tirocinante in una compagnia di danza. Quando Sophie, la sua migliore amica nonché coinquilina, si trasferisce in un lussuoso appartamento di Tribeca, Frances si ritrova senza casa e costretta ad affrontare da sola fallimenti e passi falsi.

RECENSIONI

Frances Ha è un nuovo ritratto dell’inadeguatezza, dopo quello di Greenberg, ma senza le asperità e la disperazione del personaggio incarnato da Stiller, operando qui il filtro dell’esplicito modello della commedia metropolitana - quella newyorkese che ha in Woody Allen il suo cantore - che stempera nel disincanto i lati più oscuri della storia. Togliamoci il dente e diciamo subito che il riferimento ad Allen (Annie Hall e Manhattan in primis) e al cinema francese è tanto ovvio, quanto il discorso sulla cinefilia di Baumbach complesso: esso non si esaurisce certo in citazionismi o in riproduzione di stilemi, ma si traduce in un operare più sottile che ha a che fare con l’idea assai truffautiana (e nouvellista in generale) di nutrirsi di un immaginario, sposare un’idea, abbracciare una visione e, facendoli propri, di innervarli nel Sistema Film con una naturalezza tale da far apparire questo modus operandi istintivo, direi inevitabile, non programmato. Non si parla di un processo che si sviluppa nel film: il fenomeno dell’introiezione è avvenuto prima, il carico di suggestioni è già metabolizzato e parte del bagaglio del cineasta e si traduce in un girare che è insieme lavoro intellettuale e passionale, in cui - ed è in questo che Frances Ha denuncia il suo debito alla nouvelle vague più che nei segni esteriori (i riferimenti a Jules et Jim, i rigiramenti rohmeriani - vero nume di Baumbach, non da oggi -, la musica di Delerue e tanto altro) - il cinema, come complesso di miti di riferimento, si coniuga alla tradizione romanzesca e va a incrociare e a delineare una realtà intima e sociale, con lucida resa del dettaglio, cosciente sfumare i personaggi e circostanziare le azioni, in cui l’emozionalità ha un peso enorme e l’empatia dell’autore - l’adesione convinta alla realtà rappresentata - è valore aggiunto.

Non lo si scopre certo oggi, anche se in questo film, appunto, Baumbach dissemina più indizi che in altri: quello a cui ci riferiamo è un fenomeno che si riscontra in tutta la filmografia del regista e che a volte è più evidente, in altre molto più dissimulato (e potrei fare esempi sorprendenti, ma me li riservo per altre occasioni). Ai casi più smaccati, appartiene il prefinale godardiano de Il calamaro e la balena e, in questo film, la sequenza della corsa della protagonista sulle note di Modern Love di Bowie, che ricalca quella di Mauvais Sang di Carax: come in tutti gli altri casi, questa scena non è una citazione né tantomeno un omaggio e infatti Baumbach ha dichiarato che quando l’ha girata non pensava a Carax, che l’idea era semplicemente quella di esprimere la gioia del personaggio attraverso una corsa liberatoria. E’ stato dopo, vedendo il girato, che ha pensato a Modern Love e quindi a Carax; è stato dopo che, di fronte a quelle immagini, è suonata inevitabile quella canzone, come se quella sequenza germinasse da un patrimonio cinematografico e iconografico non prescindibile. Eccolo l’entusiasmo che non può essere trattenuto, eccola la libertà, lo spirito della nouvelle vague che porta il regista a riorganizzare le immagini secondo una logica mitica, a usarle per un discorso che, però, è integralmente suo e in cui il rimando è, per così dire, fisiologico, non certo fine a se stesso. E la nouvelle vague riverbera anche nel modo in cui il film tende a riprodurre una verità attraverso la protagonista Greta Gerwig - un po’ Diane Keaton, un po’ Anna Karina, (si prendano i paralleli non tanto con riferimento alla tipologia del personaggio quanto al ruolo fondante che avevano nei film di Allen e di Godard) - per il regista più di una musa (è cosceneggiatrice), per il film più di un personaggio.

Ma torniamo all’inadeguatezza.
Frances è definita dal suo amico Benji (sottilmente predestinato - il finale -) undateable (che alla lettera suonerebbe inappuntamentabile, una ragazza che non è fatta per i rendez-vous o per, estensione di senso, per i fidanzamenti - infrequentabile, non accoppiabile, ma niente rende davvero bene l’idea -): al di là della resa semantica, quello che conta è che questo è un termine che, prescindendo dal gioco tra Frances e Benji, fa riferimento a una incapacità vera della ragazza di inserirsi nel meccanismo della socialità, all’impossibilità di collocarsi nelle sue dinamiche consolidate, di rimanere sostanzialmente ai margini del discorso. In questo si marca la differenza con l’amica Sophie, molto più disposta al compromesso, molto più terrorizzata dalla prospettiva dell’emarginazione (ché di questo stiamo parlando), molto più incline a scendere a patti con la realtà relazionale di tutti i giorni e, dunque, anche con i suoi vincoli. Frances, come Greenberg, rifiuta invece di abbandonare l’adolescenza, di affrontare l’età adulta, le sue responsabilità e i suoi riti, i suoi meccanismi stabiliti: trovandoli soffocanti, ha problemi a uscire dall’età dell’innocenza e ad approdare nella maturità, avverte come doloroso il distacco da quella fase esistenziale, rifiuta (ed è un rifiuto non calcolato, incosciente, che confina col disadattamento) quel codice comportamentale che inibisce i colpi di testa, l’improvvisazione, l’estemporaneità. Un rifiuto che segna la distanza dal resto del mondo e che è già prodromo di una depressione.
Frances non vuole crescere, si muove assecondando i suoi sogni alla lettera (la sua permanenza nella compagnia di ballo, ad ogni costo e contro ogni logica; la preferenza a convivere con l’amica piuttosto che con il proprio boyfriend), si muove senza seguire strade battute, scheggia impazzita in una società regolata in cui l’alcool funge da decodifica: le sovrastrutture e le difese che oberano le parole dei personaggi di Frances Ha cadono col bere (Sophie, indifesa dopo la sbornia, parla a ruota libera e torna ad essere quella che era, per poi riprendere il suo cammino la mattina dopo), rivelando la loro tremante nudità, quella che Frances ostenta sempre (I sound stoned. I’m not stoned) e che, allo sguardo altrui, la rende stramba (See ‘round weirdo).

Si muove Frances, e il film con lei, film che più che una storia presenta un viaggio a tappe, un’odissea scandita dai vari indirizzi delle case della protagonista, in cui ogni stazione ha i suoi personaggi, la sua aneddotica, le sue logiche e i suoi ritorni, film la cui scansione non è temporale, ma spaziale dunque, gli eventi in un flusso continuo in cui la trasferta a Parigi (dove sennò?) è una tappa decisiva perché, semplicemente, non vi accade nulla, tristissimo emblema di un destino che non corrisponde mai alle aspettative, con l’amica assente che si manifesta solo al momento della partenza, ulteriore appuntamento non rispettato con la sorte, esempio ennesimo di uno scoordinamento esistenziale che sembra insanabile (sottolineato, ironicamente, dalla musica americana e non francese, com’è invece per gran parte del film).
Questo agire incessante e senza posa, si snoda in un percorso tormentato in cui, a tentoni e senza bussola, si cerca di arrivare a una destinazione (un posto in cui stare, direbbe Holly Golightly), destinazione che arriverà alla fine e sarà marcata da quel nome sulla cassetta della posta: è quello il traguardo, l’Itaca, il punto fermo di quest’opera ondivaga in cui Baumbach ancora una volta dimostra di non voler tendere al disegno grandioso, di muoversi con maestosa sicurezza nei suoi piccoli grandi drammi che sottintendono una generazione, quelli che Hollywood tratta sempre meno, e in cui, attraverso la storia di una relazione amicale, racconta di una dimensione umana, continuando a firmare i migliori dialoghi del cinema americano oggi.