Drammatico

VOX LUX

Titolo OriginaleVox Lux
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata114'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

L’ascesa di Celeste: dalle ceneri di un’immensa tragedia nazionale a superstar del pop.

RECENSIONI

Blackstar

Shut my mouth down I will listen, listen well
So teach me
Show me all you've got
And in your words, I will be wrapped up
Wrapped Up

Celeste, sopravvissuta a un massacro, trova in quell’evento violento l’innesco di una carriera di popstar di successo. La ricostruzione della vita della protagonista restituisce lo spirito di un Paese, è il mito che esemplifica la perdita d’innocenza di una nazione (la giovane vittima di un atto di violenza si trasforma in una diva-mostro, capricciosa e calcolatrice). Un’esperienza individuale che ne riflette una collettiva, quella della decadenza degli Stati Uniti in un’epoca segnata dall’avvento delle nuove tecnologie, di una comunicazione sempre più pervasiva, di una cultura dominante fondata sui modelli della fama e del denaro. Un tempo decadente (A 21st Century Portrait statuisce, enfatico, il sottotitolo) in cui l’arte non vince se è autentica, ma solo se si fa portatrice di un punto di vista forte, di una prospettiva. Celeste se ne fa pubblicamente portavoce, ma restando privatamente sottomessa allo sguardo degli altri, subendo la pressione dell’industria, passando dal dolore di un letto di ospedale a una vita dissoluta imbevuta di alcol e droghe, di polemiche e scandali (un incidente automobilistico con feriti e annesse dichiarazioni razziste la mettono fuori gioco per un po’: ma, nel 2017, è tempo di rinascere): un percorso complesso che lascia dietro di sé un deserto relazionale e un vuoto di affetti. Conducendo un’esistenza sotto i riflettori, in cui l’attività artistica si è trasformata in puro automatismo commerciale («I miei video peggiorano sempre più, ma vanno sempre meglio» [1], Celeste è pura, scintillante apparenza: non è l’autrice delle sue canzoni, anche se il pubblico lo ignora, è solo la front woman di una proposta musicale - concepita dalla sorella (che le cresce anche la figlia) e gestita da un manager-pigmalione - che perpetua, in termini puntualmente modaioli, il trauma che ha vissuto; è la scaltra interprete di una creazione altrui che rende vendibile attraverso un’efficace e studiatissima attività di propaganda che affonda le radici nella sua ferita primaria e in quella canzone che aveva dato speranza al suo Paese nel momento del lutto (un intenso inno che nel finale diventa vacua, genialmente interminabile, coda pop). Una propaganda di cui lo stesso terrorismo si farà forte ribaltandola per alimentare la propria e lanciarla contro la corruzione morale dell’Occidente. 

[1] Brady Corbet, egli stesso regista di videoclip, strizza l'occhio e cita, per i due video di Celeste, due maestri del genere: Hype Williams e Jean-Baptiste Mondino.

Vox Lux è la parabola di una diva che, rappresentando emblematicamente la confusione dei suoi tempi - fatti di lustrini e sangue, di show e violenza -, viene significativamente scandita da tre atti terroristici: la strage nella scuola (1999, l’anno di Columbine) che segna la nascita della sua stella; il fatidico 11 settembre 2001 delle Torri Gemelle, data in cui viene concepita la figlia, nata da un rapporto occasionale e, tra le righe, “mostruoso” perché con il musicista rock che il ragazzo che commise la strage ammirava; un nuovo massacro su una spiaggia da parte di terroristi che usano le maschere utilizzate in un suo videoclip (2017, l’anno del Bataclan). La terza parte si esaurisce in un’unica giornata, quella dello show che segna la rinascita della star e il suo ritorno a New York (mentre il secondo capitolo si apre su un’immagine delle Torri Gemelle e si chiude con quelle dell’attentato che le distrugge, il terzo si apre con la Freedom Tower che le ha sostituite).
Dall’infanzia di un leader all’infanzia di un idolo delle masse: perché Celeste, come il Prescott del film precedente del regista, nasce in un’epoca di violenza e morte e, imponendo al sistema le sue logiche, la sua visione, quel punto di vista forte che è ciò che serve per avere successo, diviene nella sua maturità, se non artefice, testimonial, di ulteriore misfatti («Il XX secolo è stato definito dalla banalità del male e il XXI secolo sarà definito dall’apparenza del male» così l’autore).

Who's That Girl?

I, I, I, I'm alive
Oh, baby I'm alive, -live, -live, -live, -live

I'm alive, I'm alive, -live, -live, -live, -live
Watch me shine, watch me shine, shine, shine
I'm alive, I'm alive, alive, alive
Alive

Brady Corbet, dopo The Childhood of a Leader, non disinnesca le ambizioni e guarda di nuovo alla grande letteratura, narrando epicamente, per capitoli, come fosse un melodramma storico, una favola faustiana che incide ancora una volta su pellicola, anche stavolta accompagnata dalle altisonanti e stridenti note di Scott Walker. Lo fa ricorrendo alla voce fuori campo del narratore Willem Dafoe, in questo, per la simpatica arroganza del gesto, restando figlioccio di Lars von Trier (e dunque nipotino di Kubrick: la voce over di Barry Lyndon aveva ispirato quella di Dogville e Manderlay). E a un umorismo corrosivo, frontale, brutale, senza sfumature. Urgente quasi. E a un parco di attori fantastici (Portman vince: odiosa, titanica).
E come in The Childhood of a Leader proponendo la sua visione della Storia secondo una chiave ambivalente e non riducibile a un’unica possibilità di lettura in cui il Male assume le sembianze del Diavolo. Che ci mette lo zampino.
Così la domanda da farsi è «chi è quella ragazza?». Perché come il percorso da leader di Prescott, in L’infanzia di un capo, si muove a metà strada tra allucinazione, presagio e distopia (rimando a quanto scrissi del film precedente), tutta la carriera della protagonista potrebbe essere una semplice possibilità, un trip post-mortem, il risultato (o l’esito espresso a livello di ipotesi) di un patto col diavolo. E il diavolo si invera naturalmente nell’industria, nella persona del manager, che le detta la condotta da seguire: fin dalla prima mossa decisiva, quella di cambiare strategicamente il testo dell’inno Wrapped Up («È su consiglio del produttore che cambia la parola “io” in “noi”. Dopo poco tutto il paese si sarebbe trovato in sintonia con i suoi sentimenti. Non era il suo dolore: era il loro»). 

«It’s about rebirth»

I come alive, I hit flatline
EKG

Insomma Celeste (personaggio che guarda ai grandi prototipi delle popstar, dall’ovvia Madonna a Britney Spears fino a Lady Gaga) muore in quell’aula scolastica, colpita dall’attentatore, ma ottiene di rinascere nei panni di una creatura predestinata, che torna sulla terra a patto di corrompere l’umanità, narcotizzandola con gli abbaglianti ritrovati dell’industria dell’intrattenimento («That’s what I love about pop music. I don’t want people to think too hard. I just want them to feel good.»). E che paga il prezzo al diavolo con l’attentato sulla spiaggia, a lei ispirato: un evento efferato in cui si compie la definitiva confusione dei livelli, la maschera pop di Celeste venendo indifferentemente usata da fan e terroristi. Che tutta la parte successiva alla strage nella scuola costituisca una semplice possibilità lo si desume dalle parole del narratore («Avrebbe avuto 13, quasi 14 anni, nell’anno 2000, l’alba del nuovo millennio»; «Nel 2017 Celeste avrebbe 31 anni»). E infatti dopo il massacro iniziale partono i titoli, perché, in qualche modo, la storia “vera” è già chiusa : Celeste è morta in quell’aula, comincia la favola nera. In cui la musica, prendendo letteralmente vita grazie a quella tragedia (primo singolo, Alive: «I, I, I, I'm alive»), ne è essa stessa emblema e sintesi: il pop di Celeste promana da quella violenza, ne è impregnato. E la popstar è solo una facciata, un simbolo, Vox che ammalia e Lux che abbaglia il pubblico, come ci dice quel lungo, coraggiosissimo finale: sul palco, quel rito-show al quale anche lo spettatore del film deve assuefarsi, sancisce la definitiva fascinazione che questo simbolo del male ha sull’umanità. In questo senso non sorprende che le canzoni siano di Sia, un’artista che non solo ingloba in sé tante dive della canzone (avendo scritto brani per Rihanna, Katy Perry, Beyoncé, Britney Spears eccetera), ma che ha scelto di coprire il suo viso proprio per evitare quell’idolatria che imprigiona la protagonista.
Da ultimo non va dimenticato un legame preciso col precedente film anche nell’utilizzo del segno attoriale in una chiave similiare: in Childhood of a leader Robert Pattinson ricopre il ruolo del padre naturale del piccolo protagonista e il ruolo di quest’ultimo da adulto, qui Rafey Cassidy è Celeste da adolescente e poi la figlia di questa nel 2017, quasi a rappresentare un clone della Celeste uccisa accanto all’adulta ipotetica, come quella scena sulla spiaggia - madre e figlia mano nella mano, la giacca da fan con la scritta che confonde le identità  - sottolinea.