TRAMA
Una casalinga che vive in una comunità sperimentale inizia a sospettare che la compagnia del marito nasconda segreti inquietanti.
RECENSIONI
Se prendiamo una vaschetta e ci mettiamo dentro una quantità sufficiente di acqua e del sapone, possiamo poi, usando una cannuccia o comunque uno strumento bucato, fare le famose bolle che piacciono tanto ai bambini (piacciono anche me, purché non mi arrivino in faccia!). Di solito lo strumento utilizzato è a forma circolare e ciò potrebbe far supporre che la struttura sferica della bolla dipenda da questa peculiarità dell’oggetto. Non è così – basta provare con qualunque poligono per verificarlo in modo empirico – e non lo è per una regola fisico-matematica: a parità di aria soffiata, ovvero il volume della bolla, la sfera ha la superficie più piccola e ciò le consente di resistere più a lungo e meglio. Sul piano vige una proprietà simile: a parità di perimetro, il cerchio ha l’area massima (lo dice meglio l’enciclopedia Treccani: «il cerchio ha l'area massima fra tutte le figure isoperimetriche tracciate sulla sfera»).
Ok, la mia spiegazione è imprecisa e lascia molto a desiderare, ma ho fatto questa premessa perché la forma circolare è una specie di leit motiv geometrico di Don’t Worry Darling, ultima fatica, presentata a Venezia 79, fuori concorso, di Olivia Wilde. La troviamo un po’ ovunque (l’occhio e la sua pupilla, la coreografia in bianco e nero, la coppa di champagne, la sede nel deserto ecc.), talvolta angustiata in una sezione aurea che rappresenta lo sforzo delle magnifiche sorti e progressive dell’uomo nuovo, quello che vuole forgiare – o che ha già forgiato, all’insaputa di parte degli adepti – il misterioso progetto Victory. Oppure eternizzata in un moto spiraliforme, come quello dell’automobile di Jack (Harry Styles) e Alice (Florence Pugh), in una delle prime sequenze del film. Per qualche ragione, l’interazione tra i coniugi mi ha ricordato quella tra Frank e April in Revolutionary Road, di Sam Mendes: il principio della fine, la quiete sotto la tempesta (infatti delle presunte trivelle scuotono la quiete fisica assai spesso: l’uomo viola la natura per fini imperscrutabili).
Don’t Worry Darling non cela nulla, in un processo inevitabilmente opposto a quello del pilot di una delle serie tv più belle mai trasmesse, Mad Men. Se in quel caso, la realtà imbellettata dalla dissimulazione pubblicitaria, ci appariva palese solo alla fine, con la camera che si allontanava beffardamente dall’alcova di colui che, per una sessantina di minuti, ci era sembrato uno scapolo impenitente (e impenitente, in effetti, Don Draper lo era davvero!), nel lavoro di Wilde il contesto e le dinamiche risultano subito chiare. Sono le interazioni a dover assumere via via una natura meno contraddittoria. La storia appare dunque distante, tanto dalla placida gabbia di The Village, a cui lo spettatore, fino a un certo punto, dà pieno credito, quanto al macabro gioco di ruolo di Antebellum, benché l’arbitrarietà straniante e brechtiana di certe scelte nell’incipit, denunciassero prima del tempo la natura programmatica di un qualche tipo di finzione. In Don’t Worry Darling, i personaggi si muovono in una danza che, nella sua ripetitività, paradossalmente statica, ci sembra la riproduzione di un incubo, gabellato per sogno. Dai colori pastello delle abitazioni e quelli sgargianti degli abiti fino alla plasticosità del cibo (le uova che sono tali solo in apparenza), ogni elemento che circonda Alice – il nome carrolliano ha un senso, forse, in questa Wonderland disneyana dove ha stravinto la filosofia amorale del tricheco – è impregnato di onirismo folle, caleidoscopico nel suo essere presentemente disturbante. Le ostrichette sono curiose, ma non in senso platonico: la loro curiosità non è sete di conoscenza, con rischi annessi, ma pur sempre votata a un impulso prometeico, almeno negli intenti. È piuttosto una protocapitalistica bramosia di esperienze tanto appaganti quanto vacue («è giunta l’or, amiche care, ormai di chiacchierar, di cappellini di chiffon, di cavoli e di re»). Non così per il personaggio di Alice, il cui risveglio, in senso lato, è in primo luogo il risveglio della coscienza, attraverso un tentativo autodeterminante: scendere dall’autobus e andare nel deserto per provare a dare una mano al pilota di un aereo che ha visto cadere, contravvenire a regole prive di significato e sovente disumane. La curiosità di Alice è quella che porta a forzare le catene per provare a uscire dalla caverna, a pretendere di non accontentarsi delle ombre della felicità, delle ombre di sé stessi.
Il simbolismo del cerchio del resto si contrappone alla lettera “V” di Victory e alla forma rettangolare, rigida, anche per l’apparecchiatura, fin troppo maniacale, del tavolo di casa Chambers, quello intorno al quale ha luogo il doppio conflitto ferale, in molteplici accezioni: Alice versus Frank (e anche Jack), consapevolezza che pian piano affiora contro simulazione e inganno. Da una parte l’armonia – certo, imposta – l’omogeneità, ma anche la forza femminile, una forza che tenta di riplasmarsi a propria immagine e somiglianza, dall’altra l’ordine, l’inflessibilità di una lettera che rimanda a una simbologia di matrice fascista. Il contrario del progresso è il caos, sostiene infatti Frank (Chris Pine), sorta di santone post-religioso ed edonista nonché capo materiale – progettista – dell’universo distopico nel quale ci muoviamo.
Wilde nondimeno tiene presenti le istanze di affrancamento femminile dalle logiche opprimenti del patriarcato, col rischio anche di qualche inciampo nella coerenza del mondo narrativo, che andava dipanando. Alice che si riappropria di un’identità violata/sottratta, che si riprende il proprio ruolo nel mondo, i propri abiti, in barba alle aspettative di un partner egoista e crudele, fa un percorso per certi versi sovrapponibile a quello dell’intelligenza artificiale (?) di Ex Machina. Le manca però la potenza di quella Ava/Eva, come a Frank manca la genialità alla base del personaggio interpretato da Oscar Isaac, vero e proprio demiurgo vittima di un’inesauribile hybris. Sulla carta interessante, ma poco sfruttata e abbastanza sbilenca, la figura di Shelley (Gemma Chan), consorte di Frank. La sua è una ribellione violenta, più vicina all’interiorizzazione del maschilismo che a una vera e propria forma di manifestazione di femminino eroico. Shelley, nonostante sia priva di sinceri afflati devoti verso il marito, non salva e non si salva, un po’ come avveniva allo schiavista-schiavo (lui sì, devotissimo) di Samuel L. Jackson in Django Unchained di Quentin Tarantino. Ancora diverso è il caso di Bunny (Olivia Wilde) che baratta una serenità di cartapesta con la necessità di elaborazione di un duplice lutto (infatti, per qualche macabro scherzo del destino virtuale, i figli – che ha perso – non le rispondono davvero neppure nella simulazione, non le ubbidiscono, le preferiscono Alice).
Gli intenti che muovono la realizzazione di Don’t Worry Darling sono validi e concreti ed è palese la necessità della regista, che qui si cimenta con un progetto e dei temi più ambiziosi rispetto a quelli che avevano caratterizzato l’esordio dietro la macchina da presa, di dare il proprio contributo a una riflessione antropologica e sociologica tutt’altro che banale o irrilevante. Purtroppo però, per quanto la bolla di sapone cerchi di resistere alle forze che la vogliono far esplodere, la sua vita è per natura breve, effimera. Come purtroppo rischia di essere questo film, volenteroso, non certo privo di pregi e slanci, ma in definitiva prolisso e finanche didascalico, nel suo cercare complessità umanistica, senza riuscire a catturarla mai veramente.