Drammatico, Recensione, Streaming

DISCO BOY

NazioneItalia, Francia, Belgio, Polonia
Anno Produzione2022
Durata91'
Sceneggiatura
Scenografia
Musiche

TRAMA

Aleksei, bielorusso in fuga dal suo passato, raggiunge Parigi e si arruola nella Legione Straniera per ottenere il passaporto francese. Nel delta del Niger, Jomo, giovane rivoluzionario, si batte contro le compagnie petrolifere che hanno devastato il suo villaggio. La sorella Udoka sogna di fuggire, consapevole che ormai tutto è perduto. I loro destini si intrecceranno, al di là dei confini, della vita e della morte.

RECENSIONI

Nelle pagine di Storia della follia nell’età classica Michel Foucault scrive che «occorre “tracciare una storia dei limiti” - questi generi oscuri, necessariamente dimenticati una volta compiuti, mediante i quali una cultura rigetta qualcosa che sarà per lei l’Esteriore». Gli occidenti del mondo, per quanto abbiano cercato di cancellare qualsiasi diversità omologandola, imponendo i propri valori, le proprie misure e i propri modi come la sola condizione umana possibile, si trovano sempre più incalzati da tutto ciò che non hanno reso loro conforme: dei buchi neri, dei vuoti che scavano dagli orizzonti degli eventi per conquistarsi uno spazio sulla scena.
Raccontando Disco Boy, esordio in lungo di Giacomo Abbruzzese, è così che potremmo provare a presentare i protagonisti, Aleksei e Jomo, due buchi neri, due poli opposti e magnetici che si attraggono (il primo bianco, bielorusso in fuga che si arruola nella Legione straniera; l’altro scuro, rivoluzionario del MEND, il Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger), ciascuno col suo carico d’Orrore, un Orrore indicibile, quello che sta dietro ogni bomba intelligente, dietro ogni immagine inerte e anestetizzata. Il solo loro esserci rappresenta tutto ciò che la buona coscienza neocoloniale, razzista e guerrafondaia vorrebbe rimuovere dallo sguardo (come sostiene Paul Ricoeur in Ermeneutica delle migrazioni, la nostra identità individuale si scopre fragile quando scorge dentro di se un elemento di estraneità, d’instabilità; è in questo momento che irrompe il «ricordo simbolico di essere stati stranieri»).
Ma se Jomo e il suo gruppo ecoterrotistico vivono per essere percepiti, riconosciuti, ricordati e per questo sono disposti a farlo con uno spiccato “senso dello spettacolo”, attraverso assalti ad alto tasso di performatività, Aleksei, al contrario, è qualcuno pronto a rinunciare alla propria storia (supera i confini fingendosi un tifoso in trasferta), che si realizza perdendosi, divenendo superficie neutra facilmente impressionabile; come Oscar di Holy Motors (non è un caso che ricominci la sua nuova vita ribattezzandosi Alex Dupont, vero nome di Leos Carax) anche lui è un ombrofago che si libera della sua ombra divorandola.

Tra loro c’è comunque un forte rapporto di corrispondenze sottolineato non solo dal fatto che all’interno di un film potentemente onirico (di quell’onirismo del tuffo attraverso lo specchio che trasporta altrove, finendo per stregare) siamo spettatori di un sogno dentro un sogno (però incapaci di stabilire chi stia sognando chi), ma anche dal lavoro denso e stratificato fatto sul suono; come raccontatomi dal regista quando lo intervistai per Film Tv, ciò che lui e la sua squadra hanno cercato di fare è stato «creare un respiro unico, un respiro terzo che nasce dalla fusione tra quello di Aleksei e quello di Jomo».
Abbruzzese viene dal documentario, ma, come Yuri Ancarani o Romain Gavras, guarda al reale non per mostrarlo, ma per riscriverlo, astrarlo, stilizzarlo e intensificarlo, perfino estetizzarlo (si pensi, qui, alle sequenze filmate tramite termocamera); lo si capisce recuperando i suoi precedenti lavori come Stella Maris o Fireworks, diventa evidente di fronte alle immagini di Disco Boy splendidamente fotografate da Hélène Louvart (Orso d’argento per il miglior contributo artistico alla 73ª Berlinale): il suo gesto cinematografico è poietico perché produce un orizzonte critico volto a decostruire lo stereotipo.
Per questo progetto lungamente atteso, messo in piedi nell’arco di dieci anni, Abbruzzese ha guardato a Carax e pensato ad Apocalypse Now, si è lasciato attraversare da ombre tourneriane che sembrano venire da Il bacio della pantera e Ho camminato con uno zombie, ma soprattutto si è fatto inspirare da quanto fatto da Claire Denis in Beau Travail, dalla dialettica presenza/assenza, e in particolare dal modo in cui la regista ha lavorato sui corpi; eloquente in tal senso il ballo finale di Aleksei/Franz Rogowski che richiama immediatamente a mente quello di Galoup/Denis Lavant: entrambi in cima al baratro, ci danzano su.