TRAMA
Sète. Un padre di famiglia prossimo alla pensione viene licenziato. Incapace di restare con le mani in mano e desideroso di contribuire a garantire un futuro ai figli, decide di realizzare un sogno: aprire un ristorante galleggiante su una nave ove far gustare ai clienti la specialità della ex moglie, il cous cous al pesce. Ma…
RECENSIONI
Oltrepassando la spesso limitante dimensione del racconto “identitario”, configurazione narrativa di una tendenza dominante nella cinematografia francese beur degli ultimi 20 anni e caratteristica precipua del film d’esordio di Kechiche – quella Faute à Voltaire che venne premiata come miglior opera prima alla mostra del cinema del 2000 –, l’ultima opera del regista franco-tunisino, come la precedente Esquive, si apre all’umanità tout court, aspira all’universalità, ci parla di uomini e di donne che lottano per sopravvivere con ostinazione, sfidando tutto e tutti. Il ristorante galleggiante diventa subito emblema di un ritorno alla sorgente/fonte originaria, necessario per poter proiettare l’uomo nel futuro, un futuro inevitabilmente “melangé”, anomalo come il couscous sui generis accompagnato dal cefalo del titolo: da un lato, la tradizione (il couscous, piatto tipico magrebino, dunque la “fonte”, e non a caso la nave acquistata dal protagonista si chiama proprio “source”), dall’altro l’esperienza (il pesce: il protagonista ha ritagliato il suo spazio nella società francese come operaio di un cantiere navale della cittadina di pescatori e turisti Sète, resa celebre da alcuni indimenticabili versi di Paul Valéry).
Una macchina da presa incollata ai volti, uno sguardo partecipe, una capacità assolutamente fuori del comune di conferire autenticità e caricare di verità frammenti di fiction, un invidiabile senso del racconto – dilatato, composto di grandi blocchi contrassegnati dall’unità di tempo e di luogo – in cui nulla viene percepito come superfluo, pleonastico. Kechiche è, nel cinema francese contemporaneo, forse il più grande direttore di attori in circolazione. Lunghe sequenze costruite sul niente (e che tutto dicono sulle vite, le tensioni striscianti, le speranze e le delusioni dei personaggi) risultano indimenticabili e struggenti anche grazie alla spontaneità e alla naturalezza degli attori, che “sono” prima ancora di cercare di “simulare di essere” qualcuno: la lunga sequenza del pranzo, con le bocche impastate di couscous; il commento spietato, quasi da coro greco “partecipe”, degli anziani della città riguardo alle ambizioni del protagonista; la memorabile cena di inaugurazione del ristorante, costruita attorno a quattro nuclei/gruppi di personaggi/“voci”: il protagonista che cerca di “dirigere” il tutto; l’opera di convincimento, rotta dal pianto, della figlia indirizzata alla madre, nuova compagna di Benji, che trova sconveniente partecipare alla festa; l’interminabile danza del ventre, estremo atto d’amore, finalmente rappresentazione cinematografica “anti-folclorista” di uno dei topoi visivi del cinema esotico – la danza del ventre non più come “attrazione/distrazione” per l’incuriosito spettatore occidentale, ma come doppio dinamico ed ugualmente disperato della folle e finale corsa del protagonista a recuperare il motorino rubato (uno dei momenti più toccanti e potenti visti al Lido); lo sprezzante commento dei “français de bouche”, che attendono di essere serviti dal “povero magrebino sognatore”; infine, le altre donne della famiglia, tra le quali spicca la prima moglie. Una giuria più coraggiosa non avrebbe esitato un attimo: La graine et le mulet è di gran lunga IL film della 64° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.
Al terzo film Kechiche mi è già diventato gastronomico. Dopo lo scostante ma pungente Tutta colpa di Voltaire e quel piccolo prodigio di meticciato linguistico che è La schivata, il cineasta di origini maghrebine inizia a scriversi addosso e a mollare la narrazione autenticamente aperta in favore di una forma sfrangiata solo in apparenza ma sostanzialmente ruffiana e funestata dallo psicologismo. Se nei film precedenti i personaggi si sottraevano alla riduzione ad un solo tratto psicologico, in Cous Cous (rivoltante conversione dell’originale La graine et le mulet) gli attanti esemplificano aritmeticamente la tabella dei caratteri: c’è l’adolescente bellicosa e intraprendente (Rym), il nonno tenace e taciturno (Slimane), la nonna brontolona e atrabiliare (Souad), la madre apprensiva e rompipalle (Karima), il padre disincantato e responsabile (Josè) e perfino la figlioletta pisciona. Non c’è male. Anche l’arco narrativo a ben vedere non riserva nulla di sorprendente: licenziamento ingiusto, volontà di riscatto, difficoltà economico-sociali e soccorso insperato in nome della solidarietà. Aggiungiamo un pizzico di coglionaggine maschile (gli uomini sono buoni soltanto a combinar guai o a ciondolarsi in estenuanti scorribande), una spolverata di vitalità femminile (vedi caso sono le donne a tenere in piedi la baracca) e il gioco è fatto. Dulcis in fundo un po’ di sensualità esotica (la burrosa danza del ventre) e il simulacro di un finale aperto: l’oggetto filmico buono per tutti i palati è confezionato e infiocchettato. Si badi bene: non è messa in discussione la straordinaria capacità di Kechiche di galvanizzare le performance attoriali con una macchina a mano dalla sensibilità stetoscopica, né il suo prepotente talento nel divaricare le ferite aperte di una comunità in difficile equilibrio tra integrazione coatta e difesa dell’identità. L’autore di La faute à Voltaire ha già dimostrato ampiamente di saper leggere cinematograficamente il reale e di saperne mettere a nudo i ceppi ideologici (l’inesorabile determinismo de L’esquive), più cocente è pertanto la delusione di vederlo imboccare – speriamo per questo isolato episodio – la scorciatoia dell’exemplum e della caricatura. Enfatizzazioni che si ripercuotono inevitabilmente sul dettato visivo: nello sforzo di alzare furiosamente il voltaggio emotivo, la camera a mano si agita come una ramazza e l’esaltante aritmia dei primi piani de La schivata degenera clamorosamente in esasperante isteria. Non aiuta certo un doppiaggio proibitivo che uniforma i rabbiosi monologhi dell’originale (quello di Julia su tutti) nella degradante tonalità del piagnisteo. Attori/non attori tutti bravissimi, troppo. Il voto non è al film (o almeno non solo), ma soprattutto al regista, che nonostante il suo Cous Cous, continuiamo ad amare.
Couscous è cinema sensistico, una presenza tangibile (la carne viva dei corpi; la materialità fluviale del linguaggio) e ravvicinata (la poetica dei primi piani, che entrano in sinergia con la pelle, il sudore, le lacrime).
Uno sguardo che sentiamo respirare (camera oscillante e in tilt), essere presente in quel gioco di ruoli che la Vita di tutti i giorni ci impone di interpretare. Kechiche nasconde dietro il suo mondo corale un'ineluttabile incomunicabilità. I personaggi, perennemente in contatto, non riescono a relazionarsi, portando il sogno di Beiji a fermarsi proprio di fronte a quel Couscous che doveva legittimare un amore comunitario e un riscatto d'identità.
Un pessimismo di fondo che trova invece un barlume di rivincita nell'intraprendenza e la malleabilità di pensiero della giovane Rym, alterego del protagonista e pensiero autoriale nello smascheramento delle contraddizioni e fragilità di una società multietnica.
Il suo ventre sensuale e abbondante in un movimento afrodisiaco sembra in primis, attraverso la sua valenza di icona 'esotica', fungere da pietanza alternativa per la lontana cornice borghese, ma, in realtà, in contrappunto con la corsa forsennata del protagonista, diventa l'atto artistico (ventre = creazione) di una possibile armonia futura e di un passaggio di testimone. (La musica fino a quel punto centellinata raggiunge picchi di pura estasi, rendendo il realismo, 'poetico').
Chissà quanto potrà durare quella danza di catartica corporeità e agrodolce speranza...forse il Couscous un giorno verrà servito.
Opera apparentemente scentrata, ma non quanto ad esempio tutto il cinema di un Vecchiali, o di un Wes Anderson, assai più del Pialat di norma citato, La graine et le mulet mostra in realtà diversi centri (la comunità magrebina, l’integrazione, il lavoro, l’amore, i luoghi, i personaggi, il couscous) attorno ai quali si addensa non solo e non tanto la narrazione quanto un senso di transito continuo che lo rende più propriamente un film di spostamenti, di sguardi decentrati su un flusso di significanti in continuo movimento, e perciò anche di aritmie visive, di progressivi déplacement della rappresentazione, dall’inarrestabile attraversamento di spazi, esterni-interni (i cantieri navali, gli interni delle abitazioni), al transire linguistico scompensatamente perpetuo dalla parola all’immagine. I totali della famiglia straniera in terra straniera, aggregata/disgregata, raccolgono o tentano di contenere il passaggio dalla voce/parola (parole) alla voce/rumore (mot) in cui l’enunciazione dei discorsi diviene al riempirsi della scena (o del quadro), insieme alla sovrapposizione dei parlanti, chiacchiera vociante, perdendo gradualmente il suo valore fatico. Se in La schivata, a parte il discorso sulla teatralizzazione della parola, ogni dialogo era semanticamente il sintomo di una situazione integrativa in divenire inerente alle banlieu metropolitane, qui Kechiche si sofferma sul linguaggio verbale come elemento eminente di differenza etnica e come impossibilità di traduzione di culture diverse, motivo per cui la risultante non può che essere una babele di espressioni mescolate, confuse e sovrapposte nel rito oramai denudato della tavolata parentale. Lo stesso couscous d’altronde potrebbe servire come unità di misura per calcolare la distanza tra il vecchio e il nuovo, tra antiche tradizioni e modernità, la preparazione del quale è affidato alla mater/matrona Souad che rafforza l’allontanamento generazionale anche nella maniera di mangiare: le mani in contrapposizione alle posate, segno quest’ultime di un’attitudine all’omologazione, più che di un’avvenuta integrazione. Poi il convergere di tutto quanto sulla barca ristorante e il suo movimento - ancora una volta - dall’idea alla realizzazione, nuova mobile centralità offerta dal film grazie a cui il couscous si fa davvero metonimia ingombrante di una mitologia culturale sovridentificata. Il vecchio (Slimane) come bestia da soma che si sobbarca la responsabilità di una famiglia (tra piccole intime tragedie coniugali), di una cultura e forse di una Storia, e il nuovo (Rym) come semenza germinatrice di un nuovo sfrontato prototipo socio-culturale, senza riti di passaggio. Entrambi legati inevitabilmente da un destino, che è poi il film stesso come movimento fatale.
Il (non) finale è l’acme di tutta questa teoria del transito enunciata dal film con le splendide sequenze alternate della danza di Rym e dell’episodio “neorealista” di Slimane, due ventri che si contorcono in seguito all’affannarsi del correre e del danzare, due respiri che sfiniscono insieme, due modi di morire e contemporaneamente vivere l’intensità di un’illusione. Dalle sovrapposizioni lambite cercate/raggiunte di parola corpo movimento, dagli spostamenti di parola-corpo corpo-parola, il parlare si fa improvvisamente solo (af)flatus, e poi definitivamente corpo, immagine-corpo nello spasmo del sudore del colore della danza.
Al terzo film da regista dopo Tutta Colpa di Voltaire e La Schivata, con uno stile realistico (Dardenne/Cantet) immerso nella sua comunità maghrebina, Abdel Kechiche parte con sguardo socio-politico sulla condizione di povertà dei lavoratori portuali, fra improvvisazione (molti attori non professionisti) e macchina da presa a mano che sta addosso ai personaggi, anche per restituire gli spazi angusti in cui vivono. È una porzione del film che, sebbene non originale nel concept, beneficia della veridicità di recitazioni e volti (doppiaggio italiano permettendo). Va a parare nei territori della “favola” del riscatto in un sogno, passando per la notoria burocrazia kafkiana delle istituzioni (ma in opera buffa). Il tutto propedeutico al dramma familiare in cui riconciliare le parti, con messaggi più detti che esperiti attraverso i personaggi, cavalcando la commedia sofisticata (i tentativi della figliastra di convincere la madre ad andare alla festa) e l’allegoria del titolo originale (per la festa risolutiva, manca il grano, non il cefalo: non si riescono a unire i due ingredienti, le due famiglie). L’iconica, lunga danza del ventre finale si gioca sulla tensione del desiderato lieto fine (tronco) ma, ciò che più salta all’occhio nello stile del regista, è la gestione delle scene corali, con overlapping e dialoghi a raffica, montaggio veloce e repentini spostamenti di macchina, mettendo tanto cous cous al fuoco. La migliore figura in campo è quella serafica e mite del padre (gli rubano anche il motorino: Ladri di Biciclette), mentre del mondo femminile è restituita la grinta e la determinazione. Produce Claude Berri.