TRAMA
Estate del 2011, sullo sfondo della crisi economica e del movimento 15-M, Madrid è invasa da un milione e mezzo di pellegrini che attendono la visita di Papa Benedetto XVI. A due ispettori di polizia vengono affidate le indagini su un brutale serial killer che violenta e uccide donne anziane. I due ispettori dovranno risolvere il caso in breve tempo e senza troppo clamore, ma la caccia si rivela molto difficile e complessa.
RECENSIONI
Susanna Nava, parlando di Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, di Massimo Recalcati, sottolinea come il ricordo dell’autore fanciullo, della fiction televisiva La madre di Torino, nella quale una donna salva il proprio figlio da una caduta mortale, avvicini al «concetto che la madre è il nome dell’Altro che non lascia che la vita cada nel vuoto del non senso» (qui). Del resto, lo stesso Recalcati scrive, nell’introduzione del saggio appena citato, citando Rilke: «Benedette siano le mani della madre […] Benedetta la “pianta” della madre e la sua memoria.»
E Rodrigo Sorogoyen, certo, a modo suo, rintraccia nei legami di sangue, cosiddetti, una sorta di percorso attraverso l’umanità o quel che ne resta. Lo fa senza il paracadute della morale comune – dunque è facile che le mani non sostengano davvero e che l’alterità materna/paterna finisca per spezzare l’equilibrio anziché rinforzarlo – o di una prospettiva che si possa intravedere come religiosa: di qui l’ironia – amarissima, s’intende – del titolo, Che Dio ci perdoni.
Non c’è nessun Dio né alcuna giustizia dei buoni contro i cattivi nel cosmo narrativo del regista spagnolo, questa volta alle prese con una sorta di noir spurio che ricorda le atmosfere epidermiche di In the Cut o il nichilismo di un lavoro come Zodiac, di David Fincher (e per certi versi, sfrondando l’epica mccarthyana, persino a Non è un paese per vecchi): l’impressione che si ha da subito è che i conti da saldare, persino o, sarebbe meglio dire, soprattutto con sé stessi, siano molto più articolati e complessi rispetto alla cattura di un killer seriale di anziane signore sole. In un certo senso, un altro riferimento rintracciabile rimanda a un autore in apparenza distante dalla formazione e dalla poetica cinematografica di Sorogoyen: quel Friedrich Dürrenmatt che, nel suo La promessa (trasposto assai bene da Sean Penn e non a caso nato, nelle premesse dell’autore svizzero, come un soggetto per il cinema), decreta la morte del giallo e fa concludere al narratore: «Matthäi […] si è spinto in prossimità delle leggi che regolano il ritmo del mondo, e a cui noi altri non arriviamo mai. Solo in prossimità, è chiaro […] Niente è più crudele di un genio che inciampa in qualcosa di idiota».
Matthäi, che non viene creduto da nessuno, richiama, in un certo qual modo, il poliziotto balbuziente e solitario, Luis Velarde, uno in gamba, sul lavoro, che però non viene preso abbastanza sul serio, che viene deriso per le sue abitudini e la disfluenza.
Anche la scelta dell’ambientazione pastorale – Madrid si appresta a ricevere la visita di Papa Benedetto XVI ed è piena di pellegrini che si confondono tra la folla – risulta, nell’impianto del regista, poco più che un macguffin ideologico, proprio nella negazione evidente di qualunque prospettiva metafisica, in questo hic et nunc dell’orrore (le anziane vengono anche stuprate): il corpo è mero agglomerato di carne, mostrato in modo impudico, o magari con la pudicizia propria dell’immanenza che basta a sé stessa, che non prevede alcuna opzione religiosamente contemplativa; la sacralità cimiteriale della preghiera postuma si infrange nella durezza del tavolaccio di un coroner e dei suoi freddi parametri autoptici. Spariscono i corpi martoriati e nudi, da un certo momento in avanti, e spariscono pure i pellegrini, perché il focus si sposta altrove, dove interessa, sulle piccole – si fa per dire – violenze quotidiane, anonime, odiose, comunque; spesso causa e conseguenza di altre efferatezze, per giunta.
Non a caso, Che Dio ci perdoni comincia con una scena che è, nel medesimo tempo, paradigma teorico e linea guida possibile per un’analisi critica; in modo analogo una scena brutale, in questo caso all’interno dell’istituzione – siamo presumibilmente dentro un ufficio di polizia – nell’altro in ambiente incontaminato (?), interessava l’ultimo lavoro del regista, As Bestas. Il mondo è attraversato da una violenza insita, ineliminabile, stupida e innocente perché fatta di puro istinto (anche di sopravvivenza, quasi ingiudicabile, pertanto) che, senza sottrarre il singolo dalla responsabilità giuridica, in senso stretto, ne spiega umanamente la deflagrazione. Pensandoci bene, la violenza, sebbene mediata dall’uso del telefono (ma questo la rende forse meno potente, meno ineluttabile?) segnava pure l’incipit di Madre: in quel frangente, quello di una comunicazione interrotta all’improvviso, avveniva la sparizione-separazione del/dal figlio, sorta di casus belli che dava avvio alla storia/all’elaborazione.
La storia – tutt’altro che sacralizzata, ancora una volta, nei termini magari auspicati di una mater dolorosa – di una donna che smarrisce le tracce del proprio bambino e della propria identità femminile; storie di madri, di legami, materni e muliebri, spezzati (e qualche volta ricomposti a fatica, attraverso una gestualità primitiva, poco esplicita), non riconosciuti, in accezioni diverse, sono appunto anche quelle che fanno da substrato a Che Dio ci perdoni e As Bestas.
Fino a un certo punto, come nel più tradizionale dei racconti di questo genere, crediamo che la nemesi di Velarde sia il compagno di strada, Javier Alfaro, irascibile e bestiale almeno quanto l’altro ci appare mite. Una scena in particolare, quella che spezza l’illusione della bonarietà (un poco puerile?), complica in modo deciso l’assunto. Tra Velarde e il killer, lo vediamo pian piano, viene teso un fil rouge che rende palese un legame malevolo, rotto, proprio con il femminile primigenio, quindi con le madri, in un caso violente, nell’altro, ci viene fatto intendere, addirittura incestuose: le camere da letto dei due uomini paiono assomigliarsi, presentando l’arredamento di una stanzetta da adolescenti, e l’assassino, la prima volta che lo intravediamo, sta dando il latte a un gatto randagio (e noi già sappiamo che lo fa d’abitudine; quella del nutrimento, dell’accudimento, è quasi una firma psicologica). Non c’è, in questi termini, una differenza etica sostanziale tra il killer e il poliziotto buono: il secondo ha saputo o dovuto fermarsi in tempo. Vediamo bene cosa significhi quando rischia di non farlo... Le condizioni e le circostanze quindi determinano gli esiti, non già un arbitrio morale strutturato.
Prima della (non) rivelazione, circa la natura dei rapporti tra l’omicida e sua madre (che è stata catechista!), è una lettura che il giovane uomo fa, ad alludere a una relazione simbiotica tra i due soggetti. La copertina del romanzo non si coglie in maniera distinta, ma si tratta di El Camino, di Miguel Delibes, mai tradotto in italiano, a quanto mi risulta. Il passaggio che ascoltiamo è appunto significativo, rispetto al rapporto morboso tra la madre, anziana e allettata, direi indifesa, e il figlio assassino: «da allora, ha guardato sua madre in modo diverso, in un modo più umano e semplice, ma anche più sincero e turbato. Era una strana sensazione che lo travolgeva in sua presenza; era come se i loro respiri si muovessero all'unisono, con una cadenza uniforme; un'impressione di parallelismo e necessità reciproca.» [1]
Nel romanzo di Delibes, subito prima di questo passaggio, avviene un dialogo tra il protagonista undicenne e i suoi due amici, sulla morte e sulla maternità. Uno dei tre, il più grande, orfano di madre dalla nascita, allude al parto come a una specie di genesi mostruosa. La conversazione tra i ragazzini si sviluppa nella forma di un’escalation che culmina con la disamina di Roque, el Moñigo: «[Le madri] Si ammalano quando vedono il bambino –– confessò. I bambini nascono con un corpo pieno di peli e senza occhi, né orecchie o naso. Hanno solo una bocca enorme per succhiare. Solo in seguito si sviluppano gli occhi, le orecchie, i nasi e tutto il resto.» [2]
Tra la madre assente, quella di Velarde, nominata sul finale, non a sorpresa, e la madre presente, presentissima, ma catatonica (che ci intenerisce e mostra allo spettatore la sua connaturata incapacità di decriptare certi segnali) si stabilisce la connessione mortifera che manifesta l’importanza del femminino nel cinema di Rodrigo Sorogoyen. È chiarissimo nel percorso sensuale della protagonista in Madre, nel finale spiazzante e sospeso di As Bestas, e stando dentro la metafora, anche nella liberazione di Cordelia dal giogo dei padri, degli uomini, questa volta, ovvero ciò a cui assistiamo in Antidisturbios.
A prescindere da ciò che il poliziotto deciderà di fare, Dio non li/ci perdonerà; Eva, invece, chissà.
[1] «Desde entonces, miró a su madre de otra manera, desde un ángulo más humano y simple, pero más sincero y estremecido también. Era una sensación extraña la que le embargaba en su presencia; algo así como si sus pulsos palpitasen al unísono, uniformemente; una impresión de paralelismo y mutua necesidad.»
[2]« —Se ponen enfermas al ver al niño —confesó—. Los niños nacen con el cuerpo lleno de vello y sin ojos, ni orejas, ni narices. Sólo tienen una boca muy grande para mamar. Luego les van naciendo los ojos, y las orejas, y las narices y todo.»