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ANTIDISTURBIOS

TRAMA

Durante un’operazione di sfratto condotta da un’unità antisommossa, un immigrato muore per sbaglio. Gli Affari Interni indagano sull’incidente portando alla luce un sistema di corruzione.

RECENSIONI

Qualche anno fa le Edizioni Saletta dell’Uva pubblicarono un saggio di Massimo Cacciari sul rapporto tra padri, figli ed eredi nel Re Lear shakespeariano. Il volume si intitolava proprio così, Re Lear. Padri, figli, eredi, con questo terzo elemento così fondamentale nell’economia della tragedia del Bardo e così plasmabile anche ai nostri fini.
Il prologo di Antidisturbios contiene, se non i temi portanti della serie di Sorogoyen e Peña, almeno una prospettiva attraverso la quale provare a leggerla (una tra le molte, perché questo lavoro, come i precedenti del regista spagnolo, non resta mai in superficie).
Una giovane donna, che più tardi sapremo essere un’agente del dipartimento affari interni della polizia, sta giocando a Trivial Pursuit con i suoi familiari. La scena ha due momenti salienti: nel primo il padre di Laia – un nome che assona con la combattiva principessa di Alderaan –  le mente, dandole come errata una risposta in realtà corretta. La donna però non si fida e pretende che le venga mostrata la carta che svela l’inganno paterno. Il secondo momento si interrompe prima che possa essere udita la risposta perché nel frattempo i personaggi discutono fra loro e poi proseguono il gioco con un altro quesito, a cui Laia risponde in modo scorretto. La domanda era: “in quale tragedia shakespeariana compare il personaggio di Cordelia?”. Una Cordelia sospesa…
Dalla Britannia di Lear – la risposta che in silenzio abbiamo dato al Trivial casalingo –  si torna in Spagna. Una squadra antisommossa viene inviata a effettuare uno sgombero difficile, difficile perché lo è sempre, anche per chi c’è abituato, difficile tanto più se si è in netta minoranza rispetto al numero degli occupanti. Ci scappa il morto e la tragedia – questa tragedia – può avere a tutti gli effetti inizio.
Il Re di Shakespeare è disposto ad abdicare in cambio di un’ammissione d’amore, ma come nota Cacciari, vi è in lui una contraddizione irrisolvibile tra la necessità di essere amato e una libido dominandi, pura manifestazione di potere giacché non è attraverso il ricatto emotivo che può suscitare il sentimento che per sé richiede e pretende dalle figlie. Laia pure si contrappone al padre che, in virtù di un’autorità da pater familias, rifiuta, salvo poi vedersi incalzato dagli altri congiunti, di fornire le prove che dimostrerebbero che non ha barato (anche perché sa bene di averlo fatto).
Laia non accetta compromessi e vuole tarare la realtà con i propri occhi, fulcro dello sguardo di Sorogoyen – co-creatore della serie e regista di quattro episodi su sei, i primi due e gli ultimi due – che li scruta con la camera, ne indaga le direzioni: è una che ascolta incessantemente le intercettazioni dei sospetatti, che valuta profili social, che si prende ciò che desidera, anche nel significato di appagamento fisico, in un modo o nell’altro.
Come Cordelia, non sa mentire, o meglio, non crede in un mondo fondato sulla bugia: «Infelice ch'io sono, non riesco a sollevare il mio cuore tanto alto quanto la mia bocca: amo la maestà vostra per quanto m'obbliga il dovere filiale: né più né meno.»
Cordelia, come Laia Urquijo, rifiuta di aderire all’ipocrisia delle sorelle, Goneril e Regan; allo stesso tempo rifiuta la vanità di Lear. Afferma sé stessa e il bilanciamento di un amore che è quello che deve essere. Il suo è un atteggiamento sano eppure, da un punto di vista più pragmatico, è anche puerile.
Il caso che capita fra le mani di Laia mette in luce, oltre alle sue capacità analitiche (l’agente Urquijo è una sorta di evoluzione tecnologica della Marge Gunderson di Fargo) anche la contraddizione insita nella sua idea di giustizia, che è astratta, proprio come la verità.
Durante uno sfratto, un ragazzo originario del Senegal è morto, cadendo da una balaustra dove si era arrampicato per... in realtà non riusciamo a decifrarlo con certezza. L’ambiguità permane, non tanto sul gesto, evidente e dalle evidenti conseguenze, anche etiche, ma sulla natura profonda del medesimo: il giovane si è gettato di sotto per sfuggire al contenimento insopportabile degli agenti – e dunque per non finire schiacciato – o perché, in ogni caso, stava cercando un modo per scappare da quella situazione che peraltro non lo riguardava direttamente, almeno non quel giorno? Di chi è la colpa? Dei poliziotti, lo prova un video fatto col cellulare, dice Laia, salvo poi doversi confrontare, al pari dello spettatore, con la sottile differenza tra colpa e responsabilità. Davanti a lei, forse per la prima volta, in senso proprio, o forse in modo diverso, con un diverso coefficiente di gravitas, date le poste in gioco, si staglia la complessità del farsi adulti. Il dovere non è soltanto ragionare sulla labile dicotomia di cui sopra, ma anche la capacità di assumersi le proprie responsabilità. La stessa sorte tocca a noi spettatori, accompagnati passo dopo passo nelle vite, fuori dalla centrale di polizia, della squadra antisommossa; vite di persone normali ché è troppo facile e autoassolutorio raccontare dei mostri.

Sorogoyen ci pone dunque di fronte, senza usare l’arma della costrizione, a un dilemma morale, che non si scioglie mai – che per sua natura non può sciogliersi – perché ci riguarda da vicino: cosa avremmo fatto noi al posto degli agenti? La risposta corretta, come al Trivial Pursuit, sarebbe stata rifiutare l’ordine dei superiori e non affrontare una missione impossibile, suicida, nel migliore dei casi. Tuttavia si sta parlando di un corpo che risente di un incardinamento completo all’ordine costituito: non sottomettersi ai comandi significa disertare. E poco importa se, in modo simile a quello che avveniva in American Sniper, l’assetto del potere, corrotto, interessato a che un’operazione sia fatta presto più che bene, palesa la de-individuazione della pedina-uomo; chi ha le mani lorde di sangue non è mai il burattinaio, ma sempre il burattino. Colpa, responsabilità, ancora loro. Si tratta qui, come nell’esperimento di Philip Zimbardo a Stanford, del compimento fattuale di una totale eteronomia in dipendenza dal contesto. Quindi, in buona sostanza, dove stanno la responsabilità e la colpa (che ovviamente non sono, per quanto detto, la stessa cosa)?
A noi la risposta, se abbiamo l’ardire di darne una definitiva, di svelare l’inganno sotto la carta. Sorogoyen, come nella prima scena, la lascia in sospeso, limitandosi a mostrare le azioni dei protagonisti. Il regista, sceneggiatore insieme a Isabel Peña ed Eduardo Villanueva, rinuncia al comodo approdo sull’isolotto di una sorta di manicheismo morale (o moralistico), non abiurando la cifra poetica fino a qui dimostrata.
Laia Urquijo arriverà a negare la sindrome di Cordelia per diventare grande, accettando la propria ambizione come parte integrante di sé stessa, imparando l’arte machiavelliana del compromesso politico (e della menzogna che a esso consegue). Il personaggio più laido di questa storia, un faccendiere – ben pagato, lo si vede dall’abitazione e dal servizio d’ordine di cui dispone – in grado di diffondere informazioni calunniose a mezzo stampa praticamente su chiunque, illustra molto bene il cambiamento in atto, un cambiamento per nulla indolore perché riguarda la frizione tra il sé ideale e il sé reale: «Tranquilla, le ossa fanno male quando si cresce.» Laia, nella trasmutazione ossea, diviene un po’ Goneril, il suo doppio speculare, diviene erede/epigona/complice dell’abiezione che ha sempre rifiutato eppure fa, chissà, è possibile, la cosa giusta. Proprio a Goneril, in King Lear, Albany dedicava queste parole: «Se lasciassi che queste mani obbedissero al mio sangue, sarebbero tali da slogarti e lacerarti le ossa e la carne. Per quanto demonio, la tua forma di donna ti protegge.»
Per inciso, la primogenita di Lear rispondeva, precorrendo Catwoman: «Marry, your manhood, mew!»
Invece Diego Lopez, il poliziotto tratteggiato con maggiore compiutezza, forse quello meno introflesso, l’unico davvero in grado di pensarsi al di fuori della centrale, alza la visiera, lente kantiana, che gli consentiva di esperire un erscheinung fin troppo eteroregolato (una caverna particolarmente ostile). Attraverso uno sguardo puro, diretto, attraverso anche la fissazione di un nome proprio e quindi dell’identità dell’altro, sarà capace di cominciare a elaborare il suo senso di colpa.
E per il resto… be’, la tragedia dell’esistenza potrà continuare col proprio placido fluire, come è sempre stato, come sempre sarà.

Se si guarda il primo episodio di Antidisturbios non si può che rimanerne affascinati. Un’unità della polizia antisommossa madrilena viene mandata in una casa popolare per quella che dovrebbe essere una semplice operazione di sgombero, ma la situazione degenera fino a scapparci il morto. Il tutto mostrato dalla prospettiva interna dei poliziotti, che la macchina da presa osserva da vicino, impietosamente, enfatizzandone esaltazioni e turbamenti. Il risultato è un racconto di grande impatto e, soprattutto, non banale. Le ragioni degli sfrattandi in protesta e quelle dei poliziotti sono sparpagliate sullo stesso piatto (“È una situazione difficile per tutti” dice Osorio, capo dell’unità, ad alcuni vicini di casa che si lamentano), ogni pretesa di polarizzazione ideologica sfuma immediatamente, e non si sa bene per chi parteggiare, con chi immedesimarsi. Sarebbe a dire che non si è imboccati con uno specifico orizzonte morale: bisogna fare i conti con la complessità del contesto, e questo è un buon segno. Le soluzioni formali poi sono – e rimarranno nel corso della serie – ganzissime. Qui, in questo primo episodio, il tenore è sincopato, emergono dalla shaky cam l’urgenza del momento, l’impellenza della situazione, in una narrazione che si presenta come cruda, in medias res, in cui chi guarda è la mosca sul muro (fly on the wall è in effetti uno stile documentaristico) che un po’ partecipa un po’ subisce. Si è sballottati in un contesto letteralmente senza via di uscita, in un convulso panorama in cui iniziamo a prendere confidenza con i sei dell’unità, uniti da un patto cameratesco eppure disomogenei per età, esperienza, propensioni. Il capo che agisce come il vecchio saggio, il giovanotto fomentato, e via malmenando.
Quel che succede però è che dal secondo episodio in poi, pur preservandosi la mano raffinata di Sorogoyen, che ci avviluppa attraverso una regia ardimentosa e spesso ineccepibile, tutto va un po’ in vacca. Già, perché se le premesse e, in un certo qual modo, le promesse del primo episodio erano quelle di un racconto schietto, scevro da tutta una serie di orpelli, da lì in poi Antidisturbios diviene progressivamente un’altra cosa, dichiarando in maniera a tratti affettata la sua crisi d’identità. Un po’ spy story un po’ noir, qualche venatura di giallo e una sana dose di soap opera, avanza la sensazione di essere di fronte a una serie che ha perso di vista il suo orizzonte buono, tranne che per un colpo di reni nella terza puntata, in cui vediamo la squadra in servizio allo stadio vedersela con un impetuoso gruppo di ultras. Anzi, ahinoi a tratti per davvero ci si annoia un po’, e in qualche modo riaffiorano quelle sensazioni à la Casa de papel. Ricordate quando volevamo vedere una rapina e dovevamo sorbirci nel mezzo gli intrallazzi amorosi e le crisi di pianto dei protagonisti? Ecco, più o meno il tenore è questo. Beninteso Antidisturbios è altra cosa, ma la sensazione che certi momenti palesemente filling allappino rimane. Se da un lato abbiamo la nostra unità mobile incasinata, nei confronti della quale volenti o nolenti siamo costretti a empatizzare (cosa che ci pone in una posizione particolarmente “scomoda”), dall’altra iniziamo a seguire le investigazioni di Laia, detective degli affari interni che intuisce qualcosa di grosso: i Nostri, accusati dopo l’incidente dello sgombero di omicidio colposo, non sono che agnelli sacrificali di un sistema criminale dominato da giudici corrotti e imprenditori immobiliari poco raccomandabili.

Così la serie diventa una specie di racconto del complotto, ma il problema è che, in buona sostanza, non ce ne frega nulla dei pedinamenti, delle indagini, dei depistaggi. Noi volevamo il primo episodio, perché lì si respiravano l’originalità, il disagevole ribaltamento di prospettiva, la tensione morale. Volevamo il primo episodio perché era (neo?)realistico, trasudante di tragedia umana da entrambi i lati della barricata, dimostrativo dell’incuria della politica senza essere didascalico né populistico. Volevamo il primo episodio perché se è vero che c’è un cinema poliziesco, poliziottesco, critico-poliziesco (si pensi alla produzione nostrana che passa da Diaz – Non pulire questo sangue, Vicari 2012, Sulla mia pelle, Cremonini 2018, e così via), ancora un caso seriale in cui la prospettiva degli antisommossa fosse quella privilegiata ci mancava (ne avevamo avuto un esempio cinematografico con ACAB – All Cops Are Bastards, Sollima 2012). E invece nel susseguirsi di colpi di scena crime non ci rimane che adagiarci piuttosto in fretta su una storia già vista e che quindi da un lato tradisce le aspettative, dall’altro si pone volontariamente in paragone con racconti consimili, presentando almeno due problemi. Il primo, come dicevamo, è che in fondo il mistero non è tale. Di storie così, ben più avvincenti, ce ne sono a bizzeffe. In secundis perché l’introduzione del personaggio di Laia, giovane e ambiziosa detective, dovrebbe costituire una sorta di contraltare all’unità mobile, che però fatica a decollare.
Loro forza bruta che risponde pedissequamente agli ordini, lei acuta intelligenza che fatica a non fuoriuscire dalle maglie del sistema. Questa specularità di fondo è tuttavia mai del tutto esplorata, se non nel torbido momento della scopata nel bagno della discoteca, che lascia francamente il tempo che trova (ok, lei è attratta dal più bello della squadra, lui è impegnato con un’altra donna ma le si concede, e tutto si chiude lì), o nelle fasi finali in cui, vittima di un insabbiamento delle prove che con tanta fatica ha costruito, svende la sua moralità a un personaggio sostanzialmente comparso come una specie di deus ex machina, ma anche qui lo snodo faustiano viene abbozzato e per nulla approfondito. Un altro guizzo che, almeno, avrebbe ispessito la velleità noir della serie, e invece si sfrange nel dirottamento verso il triangolo delle Bermude dei sentimentalismi, fino al finale agrodolce e un po’ qualunquista in cui i sistemi di disuguaglianze vengono confermati, il potere è sempre al suo posto, timidamente la dicotomia buoni/cattivi è stata messa in discussione da una sorta di etica del compromesso (ma alla fine comunque i buoni e i cattivi si sono oramai del tutto identificati), e si scimmiotta una specie di morale antirazzista senza che abbia nessun nesso con il racconto pregresso (il ragazzo che muore all’inizio del film è senegalese, ma di fatto muore non in quanto vittima di razzismo, ma delle circostanze).
Forse è meglio non “partire in quarta”, come si diceva una volta, se poi si conta di finire in folle.