TRAMA
La storia dei Queen di Freddie Mercury, dal 1970 al 1985.
RECENSIONI
Il film si apre (il bel piano sequenza iniziale) e si chiude con la parte più riuscita del film stesso, che è anche il suo peccato originale. Il falso d’autore. Il Live Aid dell’85 visto come grandiosa reunion di un gruppo “scoppiato” e, soprattutto, epitaffio artistico di un Freddie Mercury già malato e già consapevole di esserlo. In realtà, appena un anno prima i Queen avevano pubblicato The Works, con tanto di tour d’ordinanza che terminò a ridosso del Live Aid stesso e, soprattutto, a Mercury non era ancora stato diagnosticato l’HIV (1987). Per inciso, dopo il concertone di Wembley i Queen pubblicarono altri tre album in studio (A Kind of Magic, The Miracle e Innuendo), un Live registrato nell’estate dell’86 (Live Magic) e Freddie Mercury realizzò il secondo album solista, Barcelona (1988), con Montserrat Caballé.
Ora, mentre mi scuso per queste puntualizzazioni un po’ nerd, specifico che non si tratta (solo) di puntualizzazioni un po’ nerd ma sono, in realtà, argomenti che fanno emergere i (grossi) problemi legati al film di Singer (e McCarten). Messa in altri termini, perché gli autori si sono visti costretti a manipolare la realtà in modo così pesante per edificare lo zenit (non solo) emotivo del film? Perché altrimenti il film, probabilmente, non avrebbe lasciato traccia di sé. Troppo impegnato a non deludere (né infastidire) nessuno, attento a non sconfinare nell’agiografia quanto a stare alla larga dal pietismo ma utilizzando le armi improprie della superficialità e della semplificazione, con un piatto incedere cronologico e para-documentaristico, al netto di qualche licenza spettacolarizzante che finisce quasi per stonare nel quadro d’insieme. (a dirla tutta, i 20 minuti di concerto ricostruito, seppur efficaci, rischiano di sconfinare nella banale imitazione da cover band e accarezzano i nefasti territori del Tale e Quale Show).
Un biopic educato e controllato, che non rende giustizia a un gruppo / personaggio eccessivo, sempre sul confine del kitsch autoconsapevole, ridondante, ambiguo e capace di sfidare il grottesco propriamente detto. Il titolo, a ben vedere, era/è perfetto, essendo Bohemian Rhapsody (la canzone) il pezzo/manifesto dei Queen e della loro dismisura: sei minuti in cui condensare tutto, la ballata pianoforte e voce, l’Opera, l’hard rock e il metal, nel modo più artificioso a barocco possibile, con le fin troppe tracce riversate fino alla saturazione, la complessissima stratificazione delle armonie vocali e un andamento schizofrenico che affatica e confonde chi ascolta. Quando il pacchiano e il geniale rischiano di sovrapporsi, dando come risultato qualcosa di – forse – non tecnicamente “bello” ma sicuramente vitale e obliquamente personale.
Vitalità e personalità che mancano quasi del tutto a Bohemian Rhapsody (il film).
A NIGHT AT THE OPERA
Gli atteggiamenti possibili di fronte a un film come Bohemian Rhapsody - semplificando al massimo e prescindendo dal giudizio che se ne può dare - sono sostanzialmente due: quello di chi lamenta le carenze e le semplificazioni del plot, che fa le pulci alla cronologia e alla autenticità delle vicende narrate; quello di chi accetta la favola che viene raccontata perché ignora (o decide di ignorare) tutte le libertà che rispetto alla verità storica lo script si prende (tra gli autori del soggetto c’è Peter Morgan, espertissimo nel romanzare vicende storiche, soprattutto regali, che si tratti di queen o dei Queen).
Chiunque sappia un po’ di cose sulla band inglese o semplicemente abbia un ricordo vago delle sue vicende si accorgerà delle incongruenze, degli abbellimenti drammatici e delle comode e brutali sintesi (ne parla Pelleschi): quando si fa eseguire Fat Bottomed Girls durante il primo tour americano del gruppo (il pezzo appartiene a Jazz, 1978, il loro settimo album in studio) si capisce che l’opera(zione) si mette sotto le scarpe il rigore filologico e che intende giocare la partita del biopic su un altro terreno. Un terreno che è (paradosso?) coerentissimo con lo spirito altisonante e barocco di un gruppo della cui parabola artistica si fa, dunque, un melodramma in ghingheri, spalmando sull’elegia un bel po’ di liricità kitsch e abbandonandola alle derive operistiche del caso: punte di sentimentalismo altissime (il rapporto tra Freddie e Mary Austin, la tardiva comprensione paterna), momenti di gloria debitamente enfatizzati, le crisi e le riconciliazioni (la rottura e la riunificazione del gruppo - mai avvenute -, il confronto tra i caratteri [1]), il tunnel del vizio e il dolore che tracima nella tragedia.
Così quando Mercury rivela a Ray Foster (Mike Myers, tirato dentro per evidenti motivi), discografico della EMI mai esistito (ma assimilabile a Roy Featherstone), che vuole incidere un disco rock che abbia «la grandezza dell’opera, il pathos della tragedia greca e la gioia debordante del teatro musicale», quella scena diventa un manifesto, il vero programma del film. Bohemian Rhapsody (la canzone parla di un condannato a morte: il parallelo s’impone) è per l’appunto una rapsodia bohémienne (nella Bohème di Puccini Mimi muore di tubercolosi...), una storia che narra per frammenti se non la verità dell’uomo Freddie Mercury, lo spirito che animava l'artista e che lo portò alla teatrale messa in scena di un personaggio tanto straordinario fuori quanto torturato dentro.
[1] Colpisce, in tal senso, il modo in cui viene sminuita la figura del bassista John Deacon, tanto da domandarsi se sia solo un caso che il film veda tra i produttori gli altri due superstiti del gruppo, Brian May e Roger Taylor, che ne escono con ben altra statura. Peraltro a Deacon si debbono i due giri di basso assassini di Another One Bites The Dust e Under Pressure, di fatto gli ultimi sussulti creativi della band.
Certo, non tutto è all’altezza, perché l’epica di questa vicenda la si deve creare pagina per pagina e l’invenzione non dimostra sempre lo smalto necessario. E il film ha una battuta d’arresto, galleggiando in quello stanco segmento centrale (la solitudine del leader raccontata per decadenti luoghi comuni). Ma si impenna quando imbocca la strada che condurrà il gruppo al Live Aid (the 20 minutes that changed the music forever - oh mama mia mama mia -), alla glorificazione della primadonna e alla sua canonizzazione, finale riabilitativo (e farlocco: ma a chi importa se funziona?) di una spirale autodistruttiva i cui veri eccessi la storia sottintende senza mostrare mai.
E, certo, Rami Malek non ha il physique du role (e quella dentiera è davvero posticcia), ma, visto in originale, ha momenti di grande efficacia. E va riconosciuta la difficoltà di replicare un frontman del carisma (e del genio) di Mercury, figura, cosa non irrilevante, ancora vivissima nella memoria di tutti.
Bohemian Rhapsody allora si dimostra un film molto più attento al mood da creare che alla resa sfumata delle luci e delle ombre di un’esistenza; un lavoro che preferisce, intelligentemente, dare una cornice poeticamente consona all’emozionalità semplice e d’impatto della musica dei Queen, piuttosto che puntare alla resa puntuale della complessità di avvenimenti biografici che, ridotti all’osso e denudati della mitologia, forse non furono così spettacolari e appassionanti.
E che ha il merito di insinuare che dopo il 1982 i Queen (a parte Innuendo, il brano, me lo dico da solo) non ne hanno azzeccata una.