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TRAMA
Il bianco, la nera. La bianca, il nero.
RECENSIONI
Il commento che feci a La bestia nel cuore fu loccasione per un veloce screening di certo cinema italiano e dei suoi meccanismi. Rispetto al desolante bollettino di allora (questo nuovo film di Comencini è unoccasione per tornarci su) non sembra essere cambiato nulla: tutto si conferma, anzi, vieppiù tragico, alla luce di una stagione intera (la mia) passata (non tanto allegramente) a visionare opere nostrane.
La regista è ancora (carnefice-)vittima della sua tendenza al film-dossier, affrontando unaltra volta il Tema Scottante che titilli il dibattito, operando col semplicismo tipico di chi sfrutta certi pruriti del pubblico narcotizzato dal questionare standard e molesto, quello dettato/imposto dai soliti programmi televisivi o dalle famigerate prime pagine dei quotidiani gratuiti a larghissima distribuzione, che uniformano le conversazioni mattutine dellItalia lavorativa tutta e che, volenti o nolenti, plasmano un sentire comune. Allo stesso modo, e quindi senza nessuna conoscenza e coscienza della questione, Comencini divaga sullargomento (di)mostrando ogni effetto della questione e guardandosi bene dal far cenno a una possibile causa (perché questo significa problematizzare e ciò non rientra in uno schema in cui lapprofondimento è programmaticamente escluso, approccio già fallimentare per un film che vuole essere discusso innanzi tutto sul piano dei contenuti). Il cinema dellautrice, a fronte di un preteso verismo socio-antropologico, tradisce ad ogni istante lIntenzione: è dunque (ancora e sempre) essenzialmente paradigmatico, sfrontatamente dimostrativo, contratta in ogni sequenza con la materia, attraverso dialoghi palesemente scritti e palesemente recitati (lossessione è: dire qualcosa), il tentativo velleitario allordine del giorno essendo quello di rappresentare lipocrisia buonista del Bianco nei confronti del mondo africano e la resa accorta e calcolata del senso di colpa che si agita nell esborghese; niente di nuovo, insomma: limpegno nella causa nasce dallesigenza di raggirare i morsi di una coscienza che, al momento del confronto effettivo tra le due culture (indovina chi viene a cena?), entra in crisi di fronte agli imprevisti sviluppi della faccenda (laffaire clandestino non è solo, truffautianamente, questione di corna: a essere traditi non sono soltanto una moglie e un marito, ma unintera razza).
Stanti le premesse, il film, sulle note di un inno dantan di raffinatissimo meticciato (La vie en rose coverizzata da Grace Jones è sintesi sonora perfetta dellambiente ritratto), non si solleva dallo standard della mediocre fiction dalla quale si differenzia solo per una fotografia più ardita della media (Cianchetti è una garanzia e movimenta la situazione da par suo) - con una trama che più esile non si può, abbarbicata anima e corpo al subdolo (e quello sì davvero cinico) marketing della notizia e tutto un contorno di sciocchezzuole che fanno cornice divertita (e giammai commedia) o dolorismi loffissimi che non imbastiscono neanche lombra di un potenziale dramma. Sorvolando su certe incongruenze che rispondono tutte (ecco ancora la televisione) a meccanismi marchianamente ripiegati sulle esigenze spettatoriali (i dialoghi che alternano con grossolana strategia le lingue, tanto per limitare il sottotitolo siamo quasi alla metadidascalia o il diario di Nadine scritto in italiano
), su scene che lo sfiorano o cadono nel ridicolo (Volo cameriere al ricevimento africano, linqualificabile sequenza alla Fontana di Trevi che mette alla prova-razza il topos felliniano brividi -) o protese al duplice, scoperto scopo di far procedere la vicenda, da un lato, e aggiungere corollari alla tesi, dallaltro (la festa di compleanno, fiera dello spreco e piano di confronto razziale, ma anche occasione del pieno disvelamento dellattrazione erotica; le vicende speculari di Carlo e Nadine che dicono della loro diversa-uguale realtà, specularità che si sublima nelle lettere che i due si scambiano nel prefinale), i momenti migliori sono quelli meno urgentemente narrativi (il montaggio alternato durante-dopo il primo amplesso tra i protagonisti, il bel ralenti sullapproccio tra Elena e Bertrand), ma proprio per questo formalmente decontestualizzati dal resto della pellicola.
Il fronte attoriale, sostanzialmente deludente, è un altro specchio della situazione: Volo, Angiolini, Ricciarelli (ovvero: la televisione) incarnano lo spudorato strizzare locchio al pubblico più debole, quello che si seduce con qualche volto familiare (Volo, altrove passabile, si arrabatta; Ambra precipita non appena la sceneggiatura le richiede un minimo sommovimento danimo; Ricciarelli se la cavicchia); Bonaiuto e Branciaroli (ovvero: il teatro) hanno ovviamente gioco facile, il secondo gigioneggiando amabilmente su uno stereotipo che proviene dritto dritto dalla commedia allitaliana che fu.Insomma, passa il tempo e passano i film (sguardo panoramico) ma di uninversione di tendenza non si avverte traccia: la situazione dal punto di vista autoriale è tragica al punto che, spostandosi sulla barricata del pubblico, mi domando se la fortissima disaffezione (rectius: il radicale rifiuto) che lItalia manifestava nei confronti della propria cinematografia negli anni 90 (una cinematografia che, in confronto a quella attuale, e sembra davvero paradossale, era gigantesca) non fosse preferibile allodierna, benevolente accettazione del prodotto, a questo mutuo spostarsi della prospettiva dello sguardo dal divano del salotto a quello della poltroncina del cinema, cambiando, peraltro, le sole dimensioni dello schermo.
