TRAMA
Jake Sully, diventato capoclan Omaticaya, e la sua compagna Neytiri hanno avuto tre figli: Neteyam, Lo’ak e Tuk, oltre ad aver adottato Kiri, figlia dell’Avatar della defunta Grace Augustine. Si occupano inoltre di un giovane umano, Miles Socorro detto “Spider”, figlio del defunto colonnello Miles Quaritch. Un giorno, però, gli umani tornano su Pandora per colonizzarla e l’armonia, sul pianeta, si rompe.
RECENSIONI
Si torna su Pandora, 13 anni dopo, ma perché? Il primo Avatar fu tante cose, prima fra tutte un tripudio di nuove tecnologie: 3D Fusion Camera, Simul Camera, Virtual Camera, il montaggio “preventivo” (iniziato già in pre-produzione), tutte innovazioni che facevano del film un oggetto per certi versi avanguardistico, che da un lato inseguiva il paradossale progetto di essere talmente, digitalmente, sinteticamente avanzato da ottenere un look&feel analogico e dall’altro – altro ossimoro – dal pulpito della sua ipertecnologizzazione magnificava un ritorno alla semplicità del Buon Selvaggio, alla genuinità dello Stato di Natura contrapposto a una modernità feroce e spietata. Con alcuni sotto-(sotto per modo di dire)testi facili facili: l’antimilitarismo, la critica alla politica estera americana post undici settembre e soprattutto, fin dal titolo, una riflessione sul nostro status di internauti votati alle vite parallele.
La Via dell’Acqua ripercorre, in modo invero un po’ pigro, le orme del primo capitolo, con trame sostanzialmente sovrapponibili: su Pandora regnano la pace e l’armonia, arrivano gli uomini avidi, spietati e vendicativi e succede il finimondo. Con meno (sotto)testi. Perché sotto alla magnificenza visiva che, ovviamente, si è (r)affinata rispetto al 2009 ma non colpisce come allora (ma aspetto di riguardarlo in 3D), e oltre a sequenze d’azione sicuramente riuscite ma registicamente non stra-ordinarie, c’è una pedissequa riproposizione del contrasto tra la Natura animistica/panteistica di Pandora e l’ottusità umana e poco altro (la spettacolare introduzione dell’elemento acquatico, l’elogio della famiglia, le pericolose derive da teen movie con amicizie, amori e bulli dal cuore d’oro – ma ci torneremo -). Certo, Cameron non ha mai brillato per esplicita profondità e capacità di costruire personaggi tridimensionali e credibili ma è sempre riuscito a cadere in piedi, grazie all’arroganza della semplicità vestita a festa (Titanic, basicamente anticlassista e ricattatorio in senso buono), la perfezione formale (l’insuperabile tripudio action di Aliens, il vero Capolavoro di Cameron), la capacità di colpire/creare un immaginario (Terminator, che riusciva anche a rendere commestibili paradossi temporali non immediati) o, appunto, la stratificazione semantica di Avatar, che si prestava a più livelli di lettura, dentro e fuori (d)al film, livelli che andavano oltre una sceneggiatura lineare e apparentemente ingenua.
Avatar 2, invece, dà l’impressione di non essere niente di più di quello che sembra, che magari non sarà poco ma non è nemmeno tantissimo. Basta sostituire i giacimenti di prezioso Unobtanium con l’altrettanto prezioso siero della giovinezza da estrarre dai Tulkun e avremo, fondamentalmente, lo stesso film con lo stesso “messaggio”: l’uomo avido e spietato non si fa scrupoli a distruggere l’armonia della Natura per raggiungere i suoi scopi (di lucro). Torna anche il tema dell’inclusività (nel primo c’era Jake Sully, disabile e “straniero”, che doveva farsi accettare dai Na’Vi, tipo John Dunbar in Balla Coi Lupi, qui devono fare la stessa cosa i figli mezzosangue di Sully e l’umano Spider). In (s)compenso è quasi del tutto scomparso il tema della doppia vita reale/virtuale, invero un po’ datato, che dotava il primo Avatar di una multiforme profondità – qui tutti i personaggi hanno fatto la loro scelta più o meno obbligata di campo e non c’è alternanza tra i due mondi (al punto di chiedersi se il titolo Avatar sia ancora del tutto pertinente) -. E ne sono stati introdotti altri, con modalità disneyane: dalle intemperanze adolescenziali, ai primi amori, passando per i rapporti genitori/figli e l’elogio incondizionato della famiglia/fortezza. Tutto servito nel modo più prevedibile possibile.
Il problema, dunque, non è tanto che la trama de La Via dell’Acqua sia troppo semplice o banale quanto che si tratta di una trama semplice e banale che conoscevamo già, con aggiunte che lasciano indifferenti, incapace di rimpolpare la mitologia/cosmologia/biozoologia pandoriana (siamo a livello di un videogioco Open World non troppo ambizioso) e priva di qualche livello di lettura altro che, com’era accaduto per il primo film, acciuffi per la coda/treccia un po’ di profondità. Autocitazioni d’obbligo – e piuttosto evidenti (Titanic e The Abyss, solo per fare due nomi) – e musiche di Simon Franglen che si pongono in continuità con quelle di Horner, citandolo spesso alla lettera (Knife Fight, con le sue iterazioni frenetiche, sembra un cut&paste da Aliens).