
TRAMA
In una piantagione di cotone gli schiavi neri sono tenuti in condizioni davvero disumane. Una notte alcuni di loro provano a scappare: alcuni vengono catturati, altri uccisi…
RECENSIONI
Antebellum, per essere apprezzato, va preso un po’ alla leggera. Quella leggerezza, per intendersi, che si concede volentieri a Tarantino quando parla di olocausto o di razzismo ma che la vulgata – e il volgo – commuta(no) in superficialità, o peggio, quando altri meno quotati si cimentano con i grandi temi. È quello che hanno fatto gli esordienti Gerard Bush e Christopher Renz, entrando a gamba tesa in pieno black lives matter (e campagna elettorale Trump vs. Biden) con questo film sul razzismo, che oltretutto arriva “dai produttori di Get Out e Us”, ossia col nume tutelare, sebbene di rinterzo, del nuovo alfiere dell’horror politico Jordan Peele. Certo, l’argomento è quello, ma se si prende solo il cosa e si giudica il film sulla base di quanto seriamente ed efficacemente viene affrontata la questione, si rischia di uscirne freddi e poco appagati (o addirittura infastiditi, com’è accaduto a molta critica americana). Perché qui, mi pare, quello a cui bisogna guardare maggiormente è il come. E da quel punto di vista, Antebellum è un film perfettamente riuscito.
Da qui in poi, inevitabilmente, è tutto uno spoiler.
È riuscito, si diceva, perché, tra le altre cose, riesce a fregare anche lo spettatore smaliziato e addestrato da anni di mind game movies, agnizioni, finali rivelatori. Da quando la storia diventa(no), inaspettatamente, le storie, oltre a mantenere un accettabilissimo livello di autonomia e credibilità per entrambe le linee narrative, al netto di qualche grossolanità (in sostanza si configurano come “due film sul razzismo che non dicono nulla di nuovo e non vanno troppo per il sottile”), le sorprese non sono affatto finite. Capiamo ovviamente che c’è un depistaggio – dichiarato - in atto ma il pensiero, piacevolmente confuso, va a una (ri)soluzione fatta di sogni atavici o universi paralleli, con l’attenzione e la tensione che rimangono comunque alte. Attenzione e tensione che riguardano due livelli di fruizione, uno più basico (come andrà a finire ‘sta storia?) e un altro più, diciamo, critico, ossia: come ne usciranno gli esordienti Bush e Renz? Ne usciranno bene, e non era affatto scontato. Affidano a un altro squillo di cellulare l’epifania definitiva e chiarificatrice, shyamalaniana fino al plagio (The Village, ovviamente) e da lì il film prende la sua piega inevitabile, con tutte le forzature narrative del caso, fino al finale in cui le due apparenti linee temporali confluiscono nella stessa inquadratura con un ralenti enfatico ma adeguato al pathos (meta)cinematografico del momento.
Note di merito per il piano sequenza iniziale, sintagma visivo ormai abusatissimo ma che qui non suona gratuito, e per Janelle Monàe, brava e col carisma giusto per la parte.

Magnifico il piano sequenza iniziale, con carrello che taglia in diagonale la piantagione sudista cullata dagli archi nymaniani di Nate Wonder & Roman GianArthur. Poi inizia l’orrore dell’esordio del duo Bush+Renz (spot e clip musicali), con idea fra The Village e Scappa (qualche produttore condiviso) gettata nel forno crematorio del sensazionalismo. La prima mezz’ora, anche col senno di poi, è insostenibile: ritrae, senza contestualizzarli, ufficiali ontologicamente bestiali e sadici, facendone una subdola sineddoche del razzismo con schiavismo, con intenti morbosi manifesti nella pagina del timido ragazzo bianco che, da impacciato e timoroso, si trasforma in tracotante aguzzino. La poetica dello shock è occultata sventolando la bandiera dei diritti umani. La supposta trasferta temporale apre nuovi orizzonti: Bush+Renz, però, sono incapaci di argomentare l’interessante trasformazione allegorica/karmica di Eden in Veronica nel nome di Faulkner (“Il passato non è morto e sepolto. In realtà non è neppure passato”), preferiscono dare spazio informe a dispetti (ottima Jena Malone), fantasmi e smanie sessuali con commedia involontaria (Gabourey Sidibe maltratta il bell’uomo che, fra due divine, ha occhi solo per la sua stazza). La rivelazione che annulla i due periodi “storici” è ingegnosa, senza abbandonare le convenzioni di genere (sorpresa e tensione) potrebbe disquisire delle convinzioni che permangono nel Dna di una nazione: per sortire l’effetto, invece, Bush+Renz fanno del pamphlet il mezzo primario, bruciando il codice del thriller come Veronica (ottima Janelle Monáe) fa con quello del buon senso quando, anziché fuggire (ma nessuno accorre), avvolge il generale nella bandiera confederata, gli dà fuoco e, come tutto il film, preferisce farsi rozzo messaggio sulla vendicatrice nera al ralenti che uccide senza pietà.
