
TRAMA
Il detective Benoit Blanc è in Grecia per risolvere un complicato mistero che coinvolge nuovi sospettati.
RECENSIONI
«It was more than a game, it was a private joke.»
Si tratta della battuta di un film giallo classico – classico nel senso poirottiano del termine – e purtroppo da noi misconosciuto. Il titolo originale è The Last of Sheila, tradotto in italiano come Un rebus per l’assassino, con la non infrequente perdita del senso originario e la strizzata d’occhio al genere, al quale tra l’altro appartiene perfettamente, solo nel suo strato più superficiale (ma non per questo meno riuscito).
Herbert Ross, il regista di questo gioiellino datato 1973, senza dubbio non è un fenomeno o, per dirla meglio, è stato un lodevole esecutore di sceneggiature altrui, prima fra tutte, naturalmente, quella di Provaci ancora, Sam. Dunque spetta alla scrittura di Anthony Perkins – sì, proprio lui – e di Stephen Sondheim (che fa una piccola e simpatica apparizione in Glass Onion e al quale il film è dedicato, insieme ad Angela Lansbury) il compito di metterci una pezza, riuscendo a fondere Agatha Christie con Edgar Allan Poe. Ne risulta un meccanismo a orologeria pressoché perfetto, con virate che, dal giallo, dirottano verso la cupezza dell’horror gotico; tutto lavora in funzione di un’idea tragica e cinica degli esseri umani e dell’ambiente cool cinematografico. Nessuno, ma proprio nessuno, si salva e nessuno può dirsi chiamato fuori dalla responsabilità per ciò che è accaduto. L’astuzia non è filantropica e serve solo in apparenza a smascherare il delinquente; con un colpo da maestro, essa stessa rivela la sua intima natura utilitaristica, spietata. Nessun detective a bordo – però c’è un regista e, sardonicamente, non è un caso! – perché non vi sono casi da risolvere in modo canonico né colpe da espiare: la verità è solo una possibilità, tra le tante, per trarre profitto dalle disgrazie altrui.
E se è la perfidia a figurare da fil rouge in The Last of Sheila, è invece una critica sociale abbozzata e mai davvero incisiva a giocare un ruolo di primo piano nel pur godibile lavoro di Rian Johnson. Il pretesto narrativo – il concept, si direbbe in gergo pubblicitario – è piuttosto simile, ragione per la quale l’associazione viene spontanea, benché certamente il sostrato quasi archetipico sia quello che conduce dal celebre Invito a cena con delitto (che è di tre anni successivo rispetto al film di Ross) al primo tassello della saga di Knives Out. Inoltre c’è Sondheim come nume tutelare; compositore e paroliere, sceneggiatore in una sola occasione, al cinema, proprio quella di Un rebus per l’assassino: tutto torna!
In poche parole: un uomo ricco, con finalità non dichiarate – o non dichiarate del tutto – invita presso la propria lussuosa magione, che, nel caso del lavoro del ’73, è una sorta di panfilo dal nome della defunta moglie, Sheila, alcune persone con le quali è legato da vecchie amicizie o vecchi affari. Li sfida a un gioco a indizi, alla Cluedo, per intendersi, che infatti è richiamato, nel suo funzionamento incrociato, di qui e di là; la posta in palio è però da ricercarsi dietro i veli dell’apparenza più ludica e charmant.
Ma come si scrive/si filma un giallo oggi? Il genere puro, inutile negarlo, è considerato vecchio dal pubblico più smaliziato, che lo giudica superato dalle contaminazioni col thriller, nelle sue svariate declinazioni, e con la disillusione del noir. È probabile che sia questa la domanda che, se da un lato fa andare The Last of Sheila dalla parte di una stilettata al cuore dell’industria cinematografica, amorale e pronta a tutta per il dio profitto, dall’altro rende traballante la sceneggiatura – l’idea – che sostiene Glass Onion – Knives Out, al di là delle nobili intenzioni del regista.
D’altra parte, Pop. 1980, di Jim Thompson, è stato pubblicato a metà degli anni Sessanta e, secondo direttive diverse rispetto ai capisaldi dell’hard-boiled, ha mutato punti di vista e prospettive in un modo che non ammette retromarce e, meno che meno, inversioni a “u”. È un romanzo cattivo, cattivissimo, senza demarcazioni tra bene e male, perché tutto è sudicio e corrotto, tanto che a un certo punto, sudici e corrotti pure noi, ci dimentichiamo cosa stia macchinando lo sceriffo Nick Corey e cominciamo a solidarizzare con lui, con la sua personalissima idea di etica.
Perkinks e Sondheim, anche in un contesto diverso, per dinamiche e relazioni, hanno interiorizzato l’insegnamento (di Thompson, probabile, ma non solo), mentre Johnson pare più volte incerto sulla strada da percorrere, riuscendo a cadere nella doppia insidia della durata eccessiva (139 minuti sono davvero tanti per una trama così esile), non di rado segnale che si sta navigando a vista, e della sindrome del dito scottato; da una parte sceglie l’esca buona, dall’altra teme che il pesce pescato sia troppo grosso – troppo scomodo – e ritira l’amo. Così il regista imbastisce un jeu de massacre tra il magnate Miles Bron (Edward Norton, sempre adorabile, quando fa lo stronzo) e i suoi ospiti, invitati attraverso una scatola magica, il cui messaggio si può scovare solo risolvendo una serie di enigmi, e poi si dimentica di massacrare l’ideologia dietro il nulla cosmico che Bron incarna. Johnson le prova tutte, ma il sospetto è che i pezzi del puzzle non sempre si incastrino perché sono quelli giusti, piuttosto perché vengono premuti con le mani, in modo da adattarli agli spazi che si sono nel frattempo voluti creare: c’è, per esempio, un accenno alla pandemia da SARS-coV-2. Tuttavia, poiché per fortuna a nessuno è venuto in mente di far recitare fior di attori con la mascherina sul volto, la questione viene risolta con uno stratagemma che, nella sua non essenzialità strutturale, lascia abbastanza sgomenti. Dato che la vicenda è ambientata in una contemporaneità non meglio specificata, non si poteva semplicemente soprassedere? D’accordo: c’è un elemento nel film che viene collegato alla chiusura forzata dei musei, ma il suo utilizzo a bella posta stride con la complessità della gestione pandemica. La sospensione dell’incredulità, se ben costruita, avrebbe ovviato alle reazioni perplesse, anche senza addentrarsi in una questione ancora troppo poco elaborata per usarla da mero pretesto drammatico.
Vi è poi un accenno – proprio un accenno, nulla più – alla vita affettiva del detective protagonista: ebbene, cui prodest? Quella relazione, con tanto di illustre cameo, che speriamo possa diventare qualcosa di più in un ipotetico terzo capitolo, nel dipanarsi della storia non ha alcuna valenza né concreta né emotiva (attraverso magari un ricordo, un input involontario, una dinamica intra-relazionale, che innesca uno sviluppo extra ecc.). Meglio: non esiste proprio.
In un certo senso Glass Onion – Knives Out, perso tra lo sberleffo alle stravaganze hollywoodiane e un citazionismo un po’ decontestualizzato – il guru esaltato di Magnolia è abbastanza straniante – non riesce a mantenere a lungo quella specie di senso caleidoscopico della verità/finzione di cui parla Lacan nel volume primo degli Scritti, quando analizza La lettera rubata, di Poe: «[…] basta a farci notare in questo racconto una verosimiglianza così perfetta, che si può dire che la verità vi riveli il suo ordinamento di finzione.» (J. Lacan, Scritti. Volume primo, a cura di G. B. Contri, Milano, Fabbri Editori, 2007, p. 14)
Nel lavoro di Johnson tutto è esplicito – forzature comprese – o viene a quel livello di realtà riportato: il vetro ideologico, davanti alla disgregazione fasulla, è più trasparente che traslucido; in un certo senso è la resa di fronte alla possibilità di ricondurre lo spettatore al ruolo, sia pure marginale, nel contesto specifico, di complice di un mezzo disastro sociale. Così, invece di demolire, su un piano figurato, il capitalismo megalomane e straccione di cui Miles Bron è perfetta rappresentazione, non meno dei suoi ospiti citrulli, il regista si accontenta di punire il colpevole – colpevole anche di stupidità, una stupidità non innocua, ahinoi – lasciando intatta la struttura (gli ex complici redenti); invece di arrivare al nucleo della cipolla, si accontenta di pelarne pochi strati, quelli che non incrinano troppo lo status quo, che non ci fanno avvertire di trovarci in uno spazio poco confortevole: «It was just a game».
Rian Johnson può far vanto, senza tema di smentita, di un cast in grande spolvero, soprattutto l’irresistibile Craig che, smessi i panni inamidati di Bond-James Bond, si cala per la seconda volta, con ancora maggiore intelligenza e (auto)ironia, nel ruolo del “miglior detective del mondo”, Benoit Blanc. Il risultato però è più simile a una cena al fastfood: lo stomaco è sazio – fuor di metafora, le due ore e passa vanno via svelte e non ci si annoia mai – ma alla fine non si è certi di aver goduto davvero.
