TRAMA
Luogo di villeggiatura (Rimini) romagnolo durante il fascismo: il giovane Titta, nel confessionale, si lascia andare alle fantasie erotiche, mentre, al Grand Hotel, si racconta dell’incontro fra la parrucchiera Gradisca e un principe di passaggio.
RECENSIONI
Non potrebbe esistere, su Amarcord, commento migliore di quello fornito dall’incipit del motivo composto da Nino Rota: un intervallo discendente, ripetuto un tono sotto e seguito da una scaletta ancora discendente, che sfuma in una pausa. L’intero film è un dolce abbandonarsi alla deriva non dei ricordi, ma dell’invenzione fantastica a partire dai ricordi, un flusso che culla anche fisicamente verso un abisso onirico nel quale il concetto stesso di realtà, vissuta o ripercorsa, cessa di avere un qualsiasi significato.
Il sogno a occhi aperti ha una struttura circolare, come gli eventi che evoca: il saldo legame fra nascita e morte (la sagra della primavera), il lento avvicendarsi dei periodi dell’anno (l’insegna di un negozio: LE QUATTRO STAGIONI), la vita familiare che si spezza (la morte della madre di Titta) e ricomincia (il matrimonio di Gradisca). La città conserva intatto il proprio volto, e lo stesso accade agli abitanti: Fellini eleva il concetto di personaggio piatto (ciò che di solito si definisce, con infinito disprezzo, macchietta) a vertici mai più neppure sfiorati, creando tipi cristallizzati con artificio così miracolosamente sublime da sembrare reali più di tanti personaggi più complessi (per tacere di parecchi esseri più o meno umani), figure quasi insostenibilmente vere, create dalla più spudorata e benefica delle simulazioni, quella dell’arte.
Nelle magiche scenografie, la cui visionarietà sussurrata non sfigura accanto a quella di Casanova, gli eventi della Storia (il fascismo, il passaggio del Rex) perdono il peso un po’ imbarazzante insito in ogni ricostruzione, diventano evocazione stregonesca di un passato tanto mitico da essere da sempre e per sempre fuori dal tempo, sospeso in una sorta di crepuscolo ultraterreno in cui si sgretolano i confini fra realtà e fantasia e persino la struttura del racconto cinematografico “ben fatto”. Non un protagonista (il personaggio di Titta è tutt’altro che centrale), ma una folla di fantasmi schizzati con due tratti (o anche uno solo) che si presentano alla macchina da presa (direttamente o meno) per narrare, fingere le proprie storie, le passioni, i ricordi. Vortici di flashback, istanti di fantasticheria, notazioni naturalistiche e movenze da balletto grottesco sono gli elementi che compongono un puzzle superbamente ambiguo, contrassegnato solo (solo?) dalla centralità della Donna, la Vita che deride le convenzioni religiose (la confessione) e politiche (il monumento alla Vittoria), incarnata da esseri magmatici e rassicuranti, baluardi contro il muto vuoto nebbioso di una morte (in)certa.
Contro la vita che si spegne, e in attesa della rinascita (anche semplicemente sognata), non c’è che la bellezza: la neve che forma labirinti scherzosi, la deserta regalità del Grand Hôtel, l’apparizione di un pavone incongruo e commovente, l’attonita gioia del mendicante cieco di fronte al transatlantico notturno, i sogni di gloria lungo le Mille Miglia (e le mille e una notte), il matrimonio benedetto da un Mussolini floreale, la lenta danza dei pollini nell’aria marzolina. Perché tutto possa ricominciare daccapo…

Il "Mi ricordo" dialettale di Fellini omaggia la natia Rimini in una serie di versi pittoreschi ed ammalianti per schiettezza, deformazione grottesca e sapori provinciali. Un cinema di memoria che non è autobiografico (così ebbe a dichiarare l’autore) e costituisce una sorta di antefatto a I Vitelloni (1953), ripercorrendone l’infanzia e la giovinezza, con meno ironia e partecipazione ma con sublimi dosi di poesia e fantasia, per tratteggiare la piccola borghesia, la scuola, le amicizie, i primi pruriti sessuali, le goliardate, le illusioni e le disillusioni. E’ minimalismo debordante e visionario di umanità e fatti quotidiani, in un clima da fiaba universale. Il privato si staglia sulla Storia, strappandole il proscenio con un sentire che si ferma a metà strada fra la commemorazione e la nostalgia, per esaltare la dimensione umana in tutti i suoi aspetti, senza rimpianti o condanne. Il memoriale con i suoi tremiti viaggia sulle tonalità eterne della poesia, forgiata con le emozioni semplici, incorniciata in una disincantata visione della realtà che anela al tragico (la morte e i funerali di Miranda) per ancorarsi senza indugio alla tenerezza e alla meraviglia delle visioni, degli umori, degli odori: come dimenticare la prosperosa tabaccaia o la patetica Gradisca (entrambe simbolo di un erotismo popolare senza malizia), il folle zio di Titta (Ingrassia) che si arrampica su di un albero chiedendo una donna, l’apparizione del pavone sotto la neve che espande la dimensione magica, la nebbia simile all’oblio, i batuffoli lanuginosi in balìa del vento che scandiscono il passare delle stagioni, i falò e il loro arcano valore rituale, la visione mi(s)tica del transatlantico Rex illuminato nella notte. Tutto è dolce follia: la dolcezza è data dall’immediatezza, la follia dall’anticonvenzionalismo. Un film corale che, come disse Tonino Guerra, “Ha regalato l’infanzia al mondo” (e l’Oscar per il miglior film straniero a Fellini).
