Drammatico, Sala

ALÌ HA GLI OCCHI AZZURRI

TRAMA

Nader e Stefano sono due ragazzi che vivono a Ostia e passano il tempo tra scuola e rapine. Nader è in conflitto con la sua famiglia, diviso tra la cultura occidentale dei suoi amici e la religione dei suoi genitori. Un giorno, una rissa in discoteca mette i due amici nei guai.

RECENSIONI

Il titolo (che suona melenso, usato così) viene da Pasolini. “Profezia”, del 1964, cantava di una rivoluzione barbara in cui migliaia di umili, deboli, sudditi sarebbero sbarcati su “navi a vela e a remi... varate nei Regni della Fame” per uccidere, aggredire, derubare, dietro al loro condottiero “Alì dagli occhi azzurri”. “E prima di giungere a Parigi / per insegnare la gioia di vivere, / prima di giungere a Londra / per insegnare a essere liberi, / prima di giungere a New York, / per insegnare come si è fratelli / - distruggeranno Roma / e sulle sue rovine / deporranno il seme / della Storia Antica”. La visione poetica è potente e sembrò anticipare di decenni, come hanno scritto in molti, le immagini dei migranti sulle coste italiane. Il senso di quei versi sembra quello di un rinnovamento che purifichi l’Occidente dal morbo della società dei consumi e lo rifondi secondo un ethos tradizionale e anti-individualistico, “il candore dei popoli barbari”. Una rivolta degli ultimi del mondo che dopo esser stati, per millenni, “timidi... infimi... colpevoli... piccoli” conquisteranno l’Occidente e gli cambieranno l’anima.

Il film di Giovannesi, però, racconta la profezia inversa. L’adolescente Nader, egiziano e musulmano, si adatta alla periferia occidentale: parla romanesco, veste come i suoi amici, usa delle lenti a contatto azzurre per traviare l’immagine delle sue origini, ha la ragazza (nonostante il divieto dei genitori), va in discoteca coi compagni di scuola. L’anima del barbaro è cambiata dal costume occidentale, e non viceversa. Non c’è nessuna rivoluzione dei costumi se non quella, a Pasolini poco gradita, dell’omologazione dei proletari alle mode borghesi, e degli immigrati agli usi locali. La cultura tradizionale di Nader, quando affiora in superficie, è irragionevole e tragica – e comunque fallimentare. Giovannesi certifica la morte della visione poetica pasoliniana, per confermarne invece l’analisi sociologica: quella, per intenderci, degli Scritti Corsari, dove Pasolini denunciava il conformismo interclassista come un’espropriazione dell’autenticità proletaria e l’abbandono della differenziazione culturale tra classi sociali come una resa etica e politica. Nader non porta nessun seme di Storia Antica, ma brama invece la mimetizzazione nella sgangherata modernità metropolitana che lo accoglie a malincuore.

Per raccontare questa storia di integrazione, Giovannesi sceglie un approccio scarno e documentaristico. Gli attori non professionisti sono filmati nel loro ambiente reale (un’Ostia neorealista deturpata e multiculturale) e spesso nelle loro relazioni reali (quelli sullo schermo sono i veri genitori di Nader e la sua vera ragazza). I dialoghi sono asciutti e credibili (una rarità per l’odierno standard drammatico italiano), la lingua di Nader un efficace impasto di romanesco e arabo che avrebbe senza dubbio incantato PPP, l’ottima fotografia di Ciprì dà il tono alla freddezza asettica dello sguardo e l’intreccio procede tutto sommato in modo sensato. Ci sono diverse pecche nello script e prefinale e finale convincono pochissimo nei moventi dei personaggi (ma il finale è bello da vedere); Nader e Stefano sono efficaci, molto meno i genitori di Nader, che sembrano un po' spaesati nell'improvvisato ruolo di attori; e altre debolezze marginali. Il progetto però è parecchio interessante, la produzione solida e l’esito buono. Manca l’idea di un futuro migliore (né progresso, né rivoluzione, più probabilmente un misero galleggiamento perenne) ma questo non è più tempo di vero neorealismo.