Drammatico, Recensione, Streaming

TI MANGIO IL CUORE

TRAMA

Promontorio del Gargano, stagioni, campagne, pietre, le bestie e l’umanità a stretto e quotidiano contatto. Il passato è incorniciato in un episodio del 1960: sterminano la sua famiglia in pochi attimi, il piccolo Michele riesce invece a sottrarsi agli aguzzini e nei decenni a seguire vendicherà i propri cari assassinati. Il presente è il 2004: ancora da una parte i Camporeale e dall’altra i Malatesta, due famiglie che da troppo tempo si odiano ma che sono ora pervenute a una tregua fragile. L’amore impossibile che però esplode improvviso tra Andrea Malatesta e Marilena, moglie di un boss latitante dei Camporeale e madre dei suoi figli, trascinerà nuovamente tutti in una violentissima spirale di sangue e morte.

RECENSIONI

Nel Paese delle spose infelici Annalisa saltava giù dalla cima di una chiesa per imparare definitivamente a volare; nel Bene mio Noor irradiava del suo transito misterioso le notti e i giorni dei vicoli e delle stanze di un borgo abbandonato dall’uomo e da Dio; in Ti mangio il cuore (in concorso negli Orizzonti della Mostra di Venezia 2022) la Marilena di Elodie è il corpo estraneo improvviso in una saletta assiepata di uomini votati alla Madonna e al sangue, è il capovolgimento dell’ordine in una faida feroce tra famiglie, come lo è in una processione di donne di nero vestite e velate che cantano. È un velo scuro gettato via. Marilena è, come da sempre sono le figure femminili nel cinema di Pippo Mezzapesa, un’apparizione, un’effrazione, un movimento che abita soglie sconosciute, quasi un’immagine proveniente da un altro mondo, una fuga infine risucchiata da un tempo, da un futuro ignoto, non scritto. Anche lei ha un conto in sospeso e in fondo inestricabile con l’invisibile. Un personaggio, il suo, che deriva dal vissuto reale di Rosa Di Fiore, prima pentita della mafia garganica raccontata nel romanzo-inchiesta omonimo di Giuliano Foschini e Carlo Bonini, da cui il film è liberamente tratto, con segmenti differenti di storie ed episodi del libro che nell’opera di Mezzapesa convergono nel racconto della guerra tra i Camporeale e i Malatesta. E non sorprende che, ancora una volta, il regista – affiancato come sempre in sceneggiatura da Antonella W. Gaeta e, per la prima volta, da Davide Serino – tragga dalla realtà elementi narrativi per trascinarli in una zona d’ombra non meglio identificata, in una zona di conflitto tra forme e andamento, tra umori e campionamenti di codici e registri apparentemente inconciliabili.

Del resto, il richiamo della morte e dell’amore albergava già nel cimitero del mockumentary comico e surreale Pinuccio Lovero Sogno di una morte di mezza estate, dove le persone «lavano le tombe come se stessero avendo un amplesso, quasi, col proprio partner», come commentava in proposito Mezzapesa; una morte da estirpare con la sorte nella tombola di SettanTa; l’eros e il thanatos di Ti mangio il cuore, invece, confluiscono nelle traiettorie di un’opera trans-genere, dal crime al western, dalla commedia – o piuttosto dall’«anticommedia all’italiana» inventata dal cineasta classe 1980, come scriveva qualche anno fa Silvana Silvestri su “il Manifesto” – al tragico. È quindi possibile che, in una storia sporca e ferina, di fango e di odio, di escrementi bestiali e di bestialità sanguinarie, tra la purezza giocosa dei bambini e la discesa agli inferi di Andrea Malatesta (Francesco Patanè), la sua metamorfosi da angelo a demone, dal Mito e dalle vie eterne tracciate da Shakespeare si giunga al Germi “americano” e soprattutto a quello “siciliano”, ovvero a quella sua visione «goyesca» (quanto sono straordinariamente storie a sé, qui, i volti degli invitati al pranzo di Natale!). È quindi possibile, ancora, che l’abisso, che le ferite che inghiottono i personaggi nell’oscurità si facciano noir espressionista nella notte e western crudele alla luce del giorno, come nella strage che apre il film nel 1960 per farsi ponte con il 2004, o come avviene con la dichiarazione di guerra che i Malatesta fanno ai Camporeale, con le vacche liberate che invadono le strade del paese e arrivano fino al camposanto.

Ma la coesistenza ossessiva, pulsante e intrecciata di bestie innocenti e di un’umanità capace di bestialità incarna metafore necessariamente illusorie, residuali, inclinate, perché si tratta della pura e spuria sostanza che si materializza nell’articolata grammatica visiva ordita da Mezzapesa, il quale fa dell’inquadratura un territorio da esplorare, squarciare (dalle processioni in favor della Madonna alla bellissima sequenza – per combinazione figurativo-sonora – sulle note di Dragostea din tei). È una sostanza che si concreta nei luciferini e acuminati dispiegamenti di senso operati al montaggio dal giovanissimo Vincenzo Soprano; o nel ventaglio sonoro popolare e insieme vischioso di Teho Teardo; o nella recitazione aspramente e ipnoticamente dialettale, liminale, defilata com’è alle psicologie e obliquamente consacrata ai corpi e ai volti di Michele Placido e Tommaso Ragno (nati in queste terre come Dino La Cecilia – anche dialogue coach per gli altri interpreti – e i giovani Letizia Pia Cartolaro e Giovanni Trombetta), di Lidia Vitale, Francesco di Leva e Brenno Placido, di una Elodie perturbante e di un Francesco Patanè allucinato. E soprattutto, a mangiare il cuore di questi personaggi, dall’inizio alla fine, c’è il bianco e nero evidentissimo eppure invisibile, radicale e pastoso, tanto rigoroso quanto materico e polveroso di Michele D’Attanasio, ottenuto con ottiche di epoca sovietica. Un film nato e cresciuto in bianco e nero, dai primi sopralluoghi del regista e del direttore della fotografia molti mesi prima di girare. Un film, infine, che termina lontano dalla guerra e si chiude sul principio del cinema.