TRAMA
1984: Arthur, giornalista, indaga sulla misteriosa scomparsa di Brian Slade, trasgressiva star del glam, di cui da adolescente era sfegatato ammiratore.
RECENSIONI
Brian Slade (Brian come Bryan Ferry e Brian Eno, Slade come l’omonimo gruppo glam) ricalca David Bowie; il suo Maxwell Damon è in tutta evidenza il primo alter ego bowiano Ziggy Stardust; Curt Wild riporta a Iggy Pop (anche se somiglia all’Eno dei Roxy e ha l’acconciatura e il nome che alludono al leader dei Nirvana), il gruppo Venus in Furs, si rifà all’omonimo brano dei Velvet Underground, i Wylde Ratttz si rispecchiano invece negli Stooges ma nel nome riecheggiano Oscar Wilde, visto dal regista come l’alieno dal quale discende questa generazione musicale pronta a buttare nel cestino tabù sessuali e comportamentali. Nella stratificata congerie di riferimenti, nel ricalco verosimile delle tappe della Storia frivola di un movimento che mescolava dandysmo, bisessualità, decadentismo e che conobbe un’unica (s)folgorante stagione per poi tornare cenere (Ashes to ashes canterà nel 1980 il Duca Bianco, chiudendo con una clamorosa agnizione il sequel di Space oddity: «We know Major Tom's a junkie/ Strung out in heaven's high/ Hitting an all-time low»), Haynes, autore subito cultizzato del disorientante trittico gay tratto da Genet (Poison) e di [Safe], alza il tiro e, già citandosi (la scena con le Barbie ossequia il suo Superstar: The Karen Carpenter Story), pensa a Welles (la struttura in evidente omaggio a Citizen Kane) e compone ambiziosamente un mosaico scintillante che, se funziona bene preso a pezzi, scricchiola alquanto nel suo insieme (dell’intreccio paragiallo e del forzato sottinteso psicoanalitico il film avrebbe fatto volentieri a meno - un po’ meno il regista, delegando soprattutto a quest’ultimo tema la continuità di un discorso autoriale che perpetuerà in Far From Heaven -).
Velvet Goldmine ha dalla sua l’osservazione fredda quanto si vuole, ma talvolta sorprendentemente esatta degli umori di un periodo, fiaccata a tratti dall’approccio intellettualistico e irrigidita da una seriosità che mal si addice al gaio furore del movimento e dell’immarcescibile fiume di note che ne seguì e che ancora oggi incanta. Il fantasma di un film sul glam, quello che il mondo aspettava, ideato da David Bowie e imperniato su Ziggy Stardust, possibilità che ogni tanto (strategicamente?) venne tirata fuori per poi essere prontamente riseppellita (certissimi che il progetto non avrebbe mai visto la luce) costituisce la scomoda, improponibile pietra di paragone e la pesante zavorra con cui Haynes, che ha evidentemente a cuore musica ed epoca, deve fare i conti (Bowie non concesse una nota: persino il brano del titolo non compare nel soundtrack). Gli interpreti (il magnifico broncio di Rhys Meyers e l’allure strafattona di Mc Gregor) ci mettono pure le corde vocali e una memorabile fellatio chitarristica in Baby’s on fire dell’Obliquo (nell’originale la praticava Bowie al suo chitarrista Mike Ronson), perla di una collana sonora che sopisce ogni languore: dai T Rex ai Roxy Music eniani di Virginia Plain, Ladytron e 2 H.B., dall’Eno del post – storico - fuck you a Bryan Ferry (Needles in camel’s eye tanto per cominciare), a Lou Reed passando a riletture di lusso nelle quali troviamo alla rinfusa Thom Yorke, Placebo, Paul Kimble etc. Difficile essere imparziali: di queste note, degli splendori e delle decadenze di questi personaggi abbiamo nutrito un cuore che ancora oggi sanguina all’incerto luccichio di un lustrino ormai sbiadito, all’attacco memorabile di una canzone:
Oh I was moved by your screen dream
Celluloid pictures of living… … …
