Drammatico, Recensione

LA FONTANA DELLA VERGINE

Titolo OriginaleJungfrukällan
NazioneSvezia
Anno Produzione1960
Durata89’

TRAMA

XIV secolo: la figlia di un ricco possidente, accompagnata da una serva gravida che ne invidia gioia e vizi, incontra tre fratelli pastori con cui entra in confidenza. In due la violentano, il terzo la uccide e, poi, ottengono ospitalità, ignari, proprio da suo padre.

RECENSIONI

C’era anche un Bergman meno ponderoso, più figurativo (sublime bianco e nero: la prima volta alla fotografia con Bergman di Sven Nykvist è già memorabile) ed espressivo/espressionista che, mettendo in scena, come qui, un racconto di violenza simbolico (tratto da una ballata del 1300), una parabola austera di poche parole, toccava pulsioni inconsce e turbava l’anima. Cinema innanzitutto pittorico come Il Settimo Sigillo (sempre ambientato nel medioevo): indimenticabile questo 1300 svedese, accurato nella ricostruzione di usi costumi e suppellettili, con immersione nella natura, nei volti sporchi e nella musica per flauto che accompagna le scene. Negli Stati Uniti gli hanno consegnato l’Oscar, in Europa in troppi l’hanno considerata un’opera minore, un po’ perché non scritta da lui (ma da Ulla Isaksson, quella di Alle Soglie della Vita), un po’ a causa delle stesse dichiarazioni di Bergman che, per certi simbolismi, considerava il film una miserabile imitazione di Rashomon, un po’ per moralismo, scagliandosi contro l’esibita violenza, soprattutto nella scena dello stupro. In realtà, l’opera è di una modernità straordinaria nel momento in cui cerca l’esemplarità non nei dialoghi ma nei gesti e atti dei caratteri. Una lezione che il cinema filosofico/politico di genere americano imparerà solo negli anni settanta, traducendola in trattati sulla violenza e la vendetta. Ma Bergman non è mai di semplice lettura (a volte, come qui, l’allegoria è più faticosa del dovuto): quella che mette in scena è tutta l’umanità in rapporto con Dio (l’autore anticipa, quindi, temi futuri e, probabilmente per la prima e unica volta nel suo cinema, nega il silenzio della divinità con un miracolo, per quanto figlio di una leggenda svedese del periodo). Sono rappresentati tutti i moti umani, tutti i peccati, gli amori, le ingiustizie, la violenza che genera violenza, il vagare inquieto dell’anima, la rabbia di classe, l’invidia, la generosità, il senso di colpa religioso, l’innocenza tanto ingenua e ignara da essere insopportabile: la viziata figlia di buona famiglia non conosce ancora il bosco dell’orrore della vita, a differenza della compagna di viaggio bastarda, stuprata, abbandonata, colma di invidia e rabbia; gli assalitori sono orfani figli di puttana e, fra loro, c’è anche un “innocente” che il moto di vendetta non risparmierà. Tutti, infine, si macchiano di grandi peccati e il meraviglioso “colpo di scena” finale, nell’assurdità e necessità del Dio, porta un miracolo per nulla catartico, cioè inconoscibile nel suo iter (per manifestarsi, ha preteso un sacrificio orribile? Premia il voto del padre portandogli prima l’orrore? È indifferente a tutto, se non alle chiese in suo nome?). Un’altra scena da antologia: quella del monaco che incalza il piccolo pastore con un racconto che sembra parlargli alla coscienza.