Drammatico, Recensione

MOLTO FORTE INCREDIBILMENTE VICINO

Titolo OriginaleExtremely Loud & Incredibly Close
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2012
Durata129'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo di Jonathan Safran Foer
Fotografia
Scenografia
Costumi

TRAMA

Oskar perde suo padre nell’attentato delle Torri Gemelle. Trovata per caso una chiave che apparteneva al padre parte alla ricerca della serratura per tutta la contea di New Yoork…

RECENSIONI

Il cinema di Stephen Daldry assume sempre di più una precisa identità alla luce di quest’ultimo film che conferma una serie di caratteristiche che i due precedenti (il convincente The Hours e lo zoppicante The Reader – il primo, Billy Elliott, costituisce discorso a parte -) avevano manifestato con chiarezza, partendo anche stavolta da una novella contemporanea che presenta una struttura peculiare e una notevole difficoltà di adattamento allo schermo: Molto forte, incredibilmente vicino, convincente seconda prova di Jonathan Safran Foer - dopo l’osannato debutto di Ogni cosa è illuminata -, sorta di ode al coraggio della New York post- 11 settembre e ad un popolo che reagisce allo choc, è uno strano romanzo-catalogo che, attraverso lo sguardo di un bambino, presenta una galleria di miniritratti che celebra la gente newyorkese, nello stesso tempo innescando un quasi involontario viaggio nelle radici del protagonista, fuori dal continente americano: il passato che proviene da un'altra terra e che si confronta dialetticamente con il presente è, del resto, la costante poetica  di Safran Foer, molto marcata nel libro (le epistole, come in Ogni cosa…), e sfumata nell’adattamento curato per Daldry da Eric Roth (già al lavoro con Fincher, Spielberg e, soprattutto, Mann) per privilegiare  la questione della Grande Paura.

Roth rende la pellicola una specie di film puzzle in cui la singola tessera poco significa se non accostata a tutte le altre, a dare, unite tutte insieme, la storia del trauma di un bambino (allarga: di una famiglia; allarga: di una città; allarga: di una nazione; allarga: di un pianeta) e del suo modo di affrontarlo: di fronte all'imponderabilità di un destino di morte (l'uomo che si lancia dal grattacielo, icona tragica di inizio secolo), di un genitore letteralmente volato via (anche la tomba resta vuota), l'istinto è ricercarne il senso. Insensatamente. Tutto allora diventa un indizio, qualunque cosa può essere letta come una traccia per la ricostruzione di una possibilità, ogni elemento e ogni persona diventano numeri di una fantomatica equazione da risolvere, New York un gioco da tavola diviso in caselle, la realtà un insieme di pezzi da raccogliere e sistemare. Il bambino, da sempre stimolato dal padre al gioco e alla sfida imponderabile, si inventa una nuova pista da seguire, si inventa che sia il padre a lanciarlo in missione, si inventa il romanzo che stiamo vedendo. Lo scrive. Diventa un esploratore.

L’intento di scoprire chi è il fantomatico Black, cognome scritto sulla busta che contiene la chiave (oggetto palesemente simbolico) che il protagonista  ha accidentalmente trovato, lo porta lontano, altrove. Dove? Tra la gente, quella che non conosce, quella che il suo isolazionismo patologico gli fa evitare, in quella giungla cittadina che gli incute terrore e che, spinto dall’amore per il padre, decide di affrontare e attraversare, sorretto solo dall’ingenuità di chi crede che ci sia una risposta a tutto: ma il procedimento usato per svelare l’enigma-che-non c’è è più importante della sua soluzione, una soluzione che sovvertirà completamente le previsioni, ché quel maniacale calcolo dei tempi e delle situazioni a nulla serve, non è altro che lo specchio della paranoia di una nazione traumatizzata, ibernata nell’ansia. L’indagine dell’orfano incrocerà allora l’esperienza gemella di un altro figlio che ricostruisce la vita del padre e di quella di un padre che recupera il ricordo di un figlio che non ha conosciuto, come a dire che la ricerca di significato di un uomo è una pista che si innesta in un reticolo nel quale si intrecciano quelle di tutti gli altri, e che i Black - come i Fall di Greenaway – costituiscono la frazione di un tutto (New York) che, attraverso quel frammento, si rappresenta come intero.

Quello di Roth per quanto, di primo acchito, appaia convulso e superficiale, alla resa dei conti si rivela, forse, il migliore adattamento che si potesse ottenere da un libro così particolare, addirittura coraggioso nel suo aderire meccanico all’intento (in)consciamente enciclopedico del suo protagonista la cui voce, fuori e dentro il campo, ci accompagna ossessiva per tutta la visione: una riduzione rigidissima e quasi avanguardistica nella sua inevitabile coscienza di essere fredda, matematica, esaustiva, poco emozionante, inevitabilmente tediosa. Il film accumula le sue storie segnalandole senza narrarle (sono foto, numeri, nomi, frammenti e accenni di sequenze) e intanto fa procedere i due filoni principali: quello della ricerca della serratura, che si dissiperà in un prevedibile nulla di fatto (una traccia del padre emergerà in altro modo…) e quello della scoperta delle radici (l’altrettanto prevedibile nonno) che mette in abisso il tema della filiazione: come in The Hours l’effetto esplosivo delle rivelazioni letterarie (la più importante porta Oskar a rileggere il suo intero percorso) viene disinnescato, esse non mutano la temperatura del narrato che prosegue costante, immutabile, automatico.

In un congegno così arido non stonano le svisate retoriche e gli effettismi melodrammatici cui Daldry indulge d'abitudine: i patetici duetti madre-figlio, la resa macchiettistica dell'Inquilino/Von Sydow (sorta di Stanlio malinconico), certi visivi colpi bassi (il crollo delle torri associato al cadere del bimbo sul pavimento, l'aereo sulla linea dell'orizzonte che sembra impattare con la casa); come per la narrazione anche per il film vale la regola che le tessere del mosaico non vanno isolate, ma viste ognuna in rapporto alle altre per scoprire che, piaccia o meno, esso è un tutto armonico in cui il tratto esangue di Daldry diventa (paradossalmente?) tipico, la sua regia felpata una conferma, l'invasivo e costante score (Alexandre Desplat: extremely loud) una cifra di riconoscimento, i ralenti enfatici una firma, il continuo alternarsi dei piani cronologici - senza sottolineature marchiane a distinguerli - una caratteristica indiscutibile, il montaggio alternato una garanzia, la centralità attoriale decisiva (l'orgia di primi piani).

Persino l'impossibile empatia, con questo ragazzino petulante e ipercinetico (nel film Oskar dice esplicitamente di essersi sottoposto a dei test per stabilire se avesse la sindrome di Asperger: che il protagonista del romanzo ne sia affetto è evidente, ma mai dichiarato [1]), carattere (vivaddio!) antiricattatorio e antidisneyano, dunque sottratto scientemente e suicidalmente alla simpatia del pubblico e dal cui spettro autistico scaturisce lo stesso registro, non solo visivo, dell'opera (divenendone chiave di lettura insopprimibile, ineludibile, imprescindibile), si piega a strategia per abbracciare quel melodramma congelato e tutto di testa nel quale l'autore, oramai lo sappiamo, ama muoversi: impossibile piangerci su (checché se ne dica), dato notabile in un film che vuole commemorare, a dieci anni esatti dall'attentato, le vittime delle Twin Towers.

 

[1] Il romanzo si pone come una delle prime organiche narrazioni post 11 settembre e in qualche modo ne sancisce un topos anche nel campo metaforico, l'autismo diventando un segno/simbolo/sintomo della tragedia delle Twin Towers: la fobia e il chiudersi in se stessi, la psicosi e la sostanziale incomprensione da parte degli altri (il mondo non ha mai realmente capito la potenza dilaniante dell'evento, come esso è stato percepito dagli americani, quanto li abbia segnati). Di ciò, ad esempio, si ritrova traccia già nel personaggio interpretato da Adam Sandler nel sottovalutatissimo Reign over me di Mike Binder e più di recente nella serie tv Touch (bambino autistico, persa la madre nell'attentato, grazie alla sua propensione per i dati e i numeri, riesce a comprendere come si intersecano le vicende delle persone, come si connettono le une alle altre e a intervenire sul loro destino). Più in generale: lo stesso universo parallelo della serie Fringe propone una New York con tanto di Torri Gemelle (immagine tabù, per anni rimossa dalle produzioni cinematografiche -  Spider Man ne fece per primo le spese -) più volte ostentato, come riferimento immediatamente leggibile del passato prossimo, segno ed espressione massima di di una ferita che continua a sanguinare.

Tre fattori compromettono la nuova pellicola di Stephen Daldry: lo spensierato inizio stile I Goonies, dove il padre perfetto coinvolge il figlio nelle cacce al tesoro e dove lo sceneggiatore Eric Roth, in modo risaputo, pare ricercare gli umori del suo Forrest Gump; l’Io narrante, che andrebbe abolito dalle trasposizioni cinematografiche, spesso comodo espediente per supplire all’incapacità di riprodurre con le immagini le riflessioni della letteratura; i frequenti patetismi (specie verso il finale, che contiene la riconciliazione con la madre), includendo tutte le volte che la scolastica sceneggiatura urla temi ed emozioni facilmente intuibili. Per il resto, Daldry realizza un’opera che sta a metà fra Billy Elliot (il protagonista adolescente, il suo dolore per la perdita di un genitore, la catarsi nel rapporto con il genitore rimasto vivo) e The Hours (la ricerca della Verità e del Senso, le urla di disagio, il giallo doloroso, i salti temporali e l’accettazione della Vita), ma che è anche la più corriva, banale, ricattatoria della sua filmografia e rende poco onore allo scrittore che fa da fonte, Jonathan Safran Foer (Ogni Cosa è Illuminata). Per fortuna, quando entra in campo un muto Max von Sydow, la pellicola s’illumina del suo personaggio e della sua prova attoriale: uno sguardo che non ha bisogno delle inutili e copiose parole dello script. Ci sono anche altri passaggi toccanti, riusciti, ma faticano a bilanciarne molti altri che, riflettendo sulla tragedia dell’11 settembre, faticano a disancorarsi dalla retorica.