Sala

7 PSICOPATICI

Titolo OriginaleSeven Psychopaths
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione2012
Genere
  • 67592
Durata110'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Marty, sceneggiatore, è alle prese con Seven Psychopaths, un copione che non riesce a scrivere. Billy, rapitore di cani, suo migliore amico, è pronto ad aiutarlo.

RECENSIONI


In Bruges, premiatissimo debutto al lungometraggio, aveva rivelato il regista irlandese Martin McDonagh innanzi tutto come fine sceneggiatore; 7 Psicopatici ne ribadisce le capacità, in un gioco autoriflessivo che, pur senza la pulizia e la precisione del predecessore, merita rinnovata attenzione, prova ne sia la sua studiatissima intelaiatura, complessa e zeppa di motivi, che non mi pare gratuito tracciare, tentando di dare testimonianza di tutti i piani coinvolti (talebani controspoiler si astengano dal proseguire, dunque).
Nota bene: con Seven Psychopaths, mi riferisco al film che Marty, il protagonista, sta scrivendo; con 7 Psicopatici, invece, al film di McDonagh che sto recensendo.
Ok, ci provo.


Siamo a Los Angeles – la prima inquadratura è per la collina di Hollywood, dove vita e racconto convivono e a volte si confondono – ed è qui che Marty (Colin Farrell), uno sceneggiatore irlandese (capito?), è alle prese con un copione, Seven Psychopaths, di cui, al momento ha scritto poco più del titolo. Quello script è/diventerà il film che stiamo guardando perché la sua scrittura si muoverà in parallelo - e in parte determinerà - le vicende del protagonista, che finirà per narrarle. In altre parole: se il film da scrivere si propone programmaticamente come opera che deve giustificare il suo titolo, dall’altra parte il suo processo di creazione influenza la realtà dei fatti circostante, tanto da rendere praticamente indistinguibile quello che va ad accadere (e che noi spettatori vediamo: 7 Psicopatici) da quella che poi, in definitiva, sarà la sceneggiatura finita di Marty (Seven Psychopaths).
Posto ciò, cioè posto che 7 psicopatici narra della scrittura di un film mentre ne constatiamo il suo farsi (pellicola), esso, peraltro, non si esaurisce nella suddetta idea perché McDonagh gioca molto bene sui due piani, il finzionale e il reale, variandoli con costante originalità. Così, nella complessa congerie narrativa nella quale confluiscono molti rivoli, una storia, che viene presentata come fittizia, riguarda invece personaggi reali (il racconto del quacchero, che nella finzione immaginata è interpretato da Harry Dean Stanton, si rivela essere la vera storia di Hans/ Christopher Walken) e una storia reale (quella del killer della carta da gioco, tratta da un giornale) viene inserita nello script su suggerimento dello stesso killer, sotto mentite spoglie. Un’altra ancora (quella di Zachariah/ Tom Waits) è possibilmente vera (se prendiamo per buono il racconto di uno psicopatico) e riportata come tale (ma chiede un pedaggio su Seven Psychopaths, una volta finito – cosa che giustificherà una coda che si apre a titoli finali di 7 Psicopatici già in scorrimento). Un altro filo narrativo (quello del prete vietnamita e della prostituta) viene partorito dalla fantasia dello scrittore e posto su un piano di realtà (romanzata) e alla fine risolto, per intervento esterno, su un piano diverso che rivela il primo come visionario (il suggerimento registrato col mangianastri che Hans lascia a Marty).
Su tutto, a un altro livello ancora, superiore a tutti gli altri, governa la penna dello Sceneggiatore Primario (McDonagh), al quale ascriverei la classificazione dei personaggi in didascalia, evidente risultato di uno sguardo onnisciente (la prova sta nel fatto che il personaggio di Charlie/ Woody Harrelson viene inserito nell’elenco dei sette psicopatici, mostrato in sovraimpressione, ben prima che Marty ne faccia conoscenza diretta).
Chiaro?


Ma non è tutto, perché, alle varie storie che vengono narrate, e che possono apparire più o meno convincenti (è il gioco), si aggiungono i suggerimenti di Billy/ Sam Rockwell (l'apice è la versione immaginata e demenzialissima della resa dei conti al cimitero,  smentita clamorosamente da una conclusione di tutt’altro tono – Non ti sei portato le pistole alla sparatoria finale? -) e quelli di Hans, oltre ai fatti e le vicende di vita dei personaggi coinvolti (la storia dei rapimenti di cani, ad esempio, è, non solo la miccia del complesso degli avvenimenti, ma essa stessa un’ulteriore traccia narrativa).
Il work in progress viene quindi messo a nudo in una meta- favola in cui si incontrano le diverse anime dell’autore McDonagh: il parlar vacuo e insistente dei suoi protagonisti (tanto da beccarsi, di riflesso, il rimbrotto di Billy che gli ricorda che Seven Psychopaths - e quindi anche 7 Psicopatici - non è un film francese) è un vezzo di chiara marca teatrale (già In Bruges si muoveva in bilico tra Beckett e Pinter), le morti facili e piene di sangue rappresentano il lato pulp della questione, in una chiave teorica (altra marca distintiva) consapevole e sfrontata (tanto che Billy pare uccidere solo per fornire ulteriore materiale per la sceneggiatura).


Nel film di McDonagh, insomma, i piani si confondono di continuo, le narrazioni si incrociano, si attorcigliano fino al parossismo (il serial killer di serial killer; il primo degli psicopatici che coincide con l’ultimo) in una grande farsa autoreferenziale, in odor di Charlie Kaufman (Adaptation.), che può contare su una scrittura attenta, quasi sempre all’altezza delle ambizioni. Martin McDonagh non teme di mettere in scena caratteri esagerati (le donne vengono tutte maltrattate, ma è un dato dichiarato dal film), di esplorare tanti generi, di fare del rapimento di un cagnolino l’evidentemente pretestuoso e sciocchissimo mcguffin e nello stesso tempo di mischiare dramma e demenzialità, parodia e tragedia, teoria giocosa e comicità pura, teatro dell’assurdo e post-tarantinismo (l’inizio con i killer che parlano a vanvera e che vengono uccisi imprevedibilmente: uno di loro è Michael Pitt).


Film meno quadrato del precedente, più in affanno nel cercare di tenere assieme la messe di motivi, di trame e sottotrame che lo animano, 7 Psicopatici, pur sottomettendo brutalmente la regia alle ragioni dello scenario, è testimonianza evidente di un cervello al lavoro: il regista non si limita al saggio intelligente ad ogni costo, poiché non trascura mai i suoi personaggi, non riducendoli a semplici figure di un teorema: in mezzo alla coltre di parole, alle pirotecnie della teorizzazione narrativa nella quale sono impigliati, al di là della loro autoconsapevolezza, essi restano sempre le creature di un dramma, ben delineate nelle loro fisionomie caratteriali, nei loro dubbi, nei loro dilemmi, nei loro conflitti morali. Il team di interpreti fa il resto (Walken è divino: profetizzo candidature e premi).