TRAMA
Roberto Giacobbo c’ha preso: nel 2012 il mondo finirà (colpa dei neutrini).
RECENSIONI
Come rendere ricevibile, alle soglie del 2010, un disaster-movie premoderno? Rimuovendo chirurgicamente qualunque parvenza di senso della misura, ovviamente, e precipitando la pre-modernità nella post- per mera saturazione. Emmerich torna finalmente ai fasti di Independence Day e gira il suo 8 1/2 (una specie). Liberatosi dalle briglie ambientaliste gore-iane (The Day After Tomorrow) e archiviato con nonchalance un pasticciaccio preistorico privo di perché (10000BC), il buon Roland torna a quello che sa fare meglio: l’Americanata talmente diabolicamente americana da deamericanizzarsi (o contro-americanizzarsi).
2012 gioca da subito le carte (scoperte) della boiata stratificata, costruendo (e intitolando) il film sulla barzelletta Maya dell’Apocalisse prossima ventura. E’ già una dichiarazione d’intenti. Furbizia e sfacciataggine profuse con saggezza, a tessere un tranello polimorfo, buono per i fans di Voyager e per chi i fans di Voyager li vorrebbe sottoporre ad attenta analisi fenomenologico/antropologico/culturale. Non è una roba da stupidi, e l’architettura del film non tarda a confermarcelo. I primi 40 minuti di clichè di Genere (gli scienziati inascoltati, i segni premonitori, la presentazione dei casi umani, la tessitura delle linee narrative destinate a intrecciarsi) sono così archetipicamente esemplari da diventare puro decostruzionismo, un caldo plaid a quadri da mettere sulle gambe di certi spettatori che al contempo stuzzica la fantasia semiotica di altri spettatori smaliziati o sedicenti tali. E cosa dire dei 120 minuti che seguono? Semplicemente: una pietra tombale. L’epigrafe che ricapitola il Catastrofico tutto e lo consegna alla Storia del Cinema con retrogusto autoparodico.
Duecentosessanta milioni di dollari (cent più, cent meno) spesi per ingoiare metropoli, brutalizzare la crosta terrestre, inventarsi Tsunami giovannei. Senza freni inibitori. Senza badare a bazzecole come il realismo, la credibilità, la coerenza. E infarcendo il tutto con parentesi di gustosa, irriverente ambiguità (la cupola di San Pietro schiacciasassi su papa, cardinali e fedeli adoranti), momenti di agghiacciante melensaggine (il pistolotto di Adrian, che porterà alla redenzione dei potenti della terra), generose manciate di disinteresse narrativo che generano effetti (“la resa dei conti subacquea” dove gli eroi si laureano tali in un tripudio famigliare) privi di reali cause (un ammennicolo arrugginito che blocca un ingranaggio da un tera-liardo di tonnellate?) e gustosi colpi di scena (le astro-navi senz’astro) in barba al buon gusto alla moderazione. “Una gioiosa macchina da guerra” (Achille Occhetto), l’apocalisse ludica e spensierata di un regista che, quando è in forma, soffoca il ridicolo con la magniloquenza, genera ironia per accumulo e che con 2012 ci sbatte in faccia la sua idea di cinema con un’autoconsapevolezza del tutto estranea ai solo apparentemente omologhi Michael Bay, Wolfgang Petersen e compagnia bella(?).
Zenit, apoteosi del genere catastrofico (perché ha tutto: eruzioni, meteoriti, terremoti, tsunami), quello per cui, bene o male, il tedesco Emmerich passerà alla Storia: a lasciare davvero esterrefatti è il risultato raggiunto dai tecnici degli effetti speciali, al lavoro su due delle due ore e mezza del film. Si è travolti dalla meraviglia di sequenze apocalittiche con dettagli perfetti, impressionanti (sia per ciò che rappresentano sia per come sono realizzate) che, rispetto a tutte le pellicole con disastri “digitali” precedenti, apportano una novità considerevole, vale a dire gli sguardi di insieme: non vediamo solo un palazzo crollare, una montagna esplodere, ma veri e propri totali di un‘intera città che sprofonda nella crosta terrestre o è vittima di simultanei crolli, esplosioni, fughe di persone, con un’elaborazione grafica e di disposizione spaziale degli eventi nello stesso quadro semplicemente da antologia. Da questo punto di vista, è il miglior prodotto di Emmerich: mai, come qui, ha immerso lo spettatore in egual tensione e così a lungo; mai, come qui, ha vinto la corsa a chi, sul mercato, presenta gli effetti più belli. Il suo cinema però, purtroppo soffre sempre degli stessi malanni: personaggi inutili, divisi fra la macchietta per divertire e il patetico per sbandierare artificiosi valori della famiglia e della solidarietà. Quando vira tutto in farsa, stile Independence Day, funziona meglio: sarebbe ora tentasse di mantenere la stessa ferocia delle sue apocalissi anche quando descrive la sua umanità. La scrittura, a tratti, riesce a coinvolgere nel pathos del melodramma o a far ridere di gusto (l’ironia sul nostro presidente del Consiglio, unico a non voler scappare e a pregare, è voluta? Se sì, geniale): togliendo lacrime, motti morali e idiozie varie poteva essere un gran film. Tratto da “Impronte degli dei” di Graham Hancock.