INTRODUZIONE
a cura di Leonardo Gregorio
Con J’ai tué ma mère ha iniziato a tracciare un cerchio, per poi chiuderlo (o forse no) con Mommy. Les Amours imaginaires hanno configurato l’ennesima illusione e un nuovo, straziante, disincanto. Laurence Anyways ha radicalizzato le forme del desiderio, Tom à la ferme le ha ingabbiate e svilite. Juste la fin du monde, nonostante tutto, nonostante una fine che sembra imminente, ha aperto un’altra porta nel finale. Perché i finali, nel cinema di Xavier Dolan, sono sempre uno “spostamento”, un rimando, una proiezione, slittamento nel tempo e nello spazio. Il ricordo di un tempo felice, di un sentimento che nasceva, o un andare via lontano, ripartire di nuovo… Ma più che “dire”, significare, sono una summa dell’ignoto che, all’improvviso, si accende, possedendo i personaggi. Sono la parte più sincera, la più estrema, di ogni suo film. Come se si azzerassero solo qui le costruzioni, le geometrie narrative, gli incisi sintattici, il continuo oscillare tra vuoti e pieni emotivi, tutto quello che sappiamo, a volte anche troppo (la maniacalità di Dolan comprende anche questo) di quell’umanità proiettata sullo schermo. Ecco, è un cinema del paradosso, quello di Dolan, perché proprio in questi ultimi spazi di non-finito, come pezzi di un romanzo da proseguire, sa trovare la propria vera, definitivamisura. Oltre tutto ciò che questo cinema contiene, lo stile, il talento visivo, la padronanza tecnica, i vezzi, le formule, il dolore, il sentimento della perdita e il narcisismo, la verità e la finzione. Cinema che si mostra apertamente, spudoratamente, come traduzione in eccessodella vita. Anzi, come il suo doppiaggio, una sovrapposizione linguistica.
Ecco perché è un cinema che spesso assolutizza il giudizio di chi lo guarda, ecco perché spesso o lo si ama o lo si odia, banalizzandolo nel derby del gusto, nella boutade cinica o nella difesa d’ufficio. La vita messa in musica, dagli Oasis a Dalida, dai Moderat a Bocelli, da Brahms, Prokofiev e Vivaldi agli Eiffel 65 e a Céline Dion e così via; il linguaggio del cinema che trova il videoclip e il kammerspiel; le madri e i figli eternamente ritornanti, gli attori (lui stesso, ovviamente) e, ancor di più, le attrici (soprattutto Anne Dorval e Suzanne Clément) che sono espressione e carne del sentimento espanso di questo cinema. Quello che il regista così sintetizza: «Sin dal mio primo film, ho parlato molto dell’amore. Ho parlato dell’adolescenza, dei rapimenti e della transessualità. Ho parlato di Jackson Pollock e degli anni ’90, di alienazione e omofobia. Dei college e del termine spiccatamente franco-canadese “speciale”, della cristallizzazione di Stendhal e della Sindrome di Stoccolma. Ho usato un linguaggio sciocco e anche triviale. Ho parlato in inglese, di tanto in tanto, e troppe volte ho anche detto delle vere e proprie scemenze. Perché è questo il rischio che si corre quando si “parla” delle cose: ossia, il fatto che ci sia sempre il rischio, inevitabile, di dire delle scemenze. È il motivo per il quale ho deciso di rimanere nel campo delle cose che conosco, o di ciò che è nelle mie corde, per così dire».
E probabilmente, lo sa anche Dolan che per la fine del mondo c’è sempre tempo, c’è sempre un altro film. Scemenza o no.