Drammatico

WONDERLAND (2003)

TRAMA

John Holmes, la più grande star del porno di tutti i tempi, finisce alla sbarra per il massacro di Wonderland Avenue: quattro individui sono stati uccisi, pare per una storiaccia di droga. Cosa è successo realmente?

RECENSIONI

Un’auto si sposta direttamente sulla cartina, attraversa pagine di giornali, scorre l’elenco dei programmi televisivi (ore 8:00 Mickey Mouse); intersezioni di linee compiono l’autopsia dello schermo, dividendolo in due, quattro, più parti. L’America stracciona e maledetta decide di immortalare Mr. 30 centimetri scavalcando la sua gloria, evitando la fallica notorietà di BOOGIE NIGHTS: è svanita ogni terra delle meraviglie (WONDERLAND: il sogno americano che fu), Holmes affronta l’inarrestabile declino. Questo il tema conduttore del secondo lungometraggio del giovane James Cox, ma il regista ne parla come se fosse il primo: il precedente HIGHWAY, pienamente rinnegato, fu girato su commissione. Anche questo, a suo modo, un road movie: attraverso il vuoto dell’anima, dritto in picchiata verso un muro da collisione frontale. Il narrato conosce una progressione: prima il fatto (vero), poi la ricostruzione dei delitti assecondando le diverse voci che li raccontano (alla RASHOMON oppure –prosaicamente- I SOLITI SOSPETTI); aggiungo per la cronaca che la verità si conoscerà soltanto in ultima istanza, lineare ed agghiacciante. Cox gira un film alla Fincher, montaggio frenetico e regia allucinata che caracolla tra strisce di sangue e cocco, infarcendolo di ogni liquido possibile: lacrime, sangue, sperma, sudore, altri. Si delinea il consueto rischio di queste produzioni: lo scivolamento dalla trasgressione al modaiolo, regalando al bello e maledetto di turno un’aureola fighetta che riempie le sale alla grande (parlando sempre di stupefacenti: si veda il pessimo BLOW di Ted Demme). D’altra parte la pellicola riesce ad imbrigliare le suggestioni che lancia, senza lasciare che queste prendano il sopravvento: ha il pregio di mantenere l’ago della bilancia perfettamente a metà, sospendendo il giudizio (ergo: la retorica) e limitandosi a mostrare, mostrare, mostrare. In alcuni tratti diventa una goduria (la scena iniziale: burrascosa scopata John/Dawn), disseminando fascinazione sul doppio binario miseria/umanità: la giovanissima donna di Holmes lo segue per amore, nonostante tutto e tutti, l’ex moglie Sharon è pronta a salvarlo ancora per il motivo di cui sopra. Rotolandosi volutamente nei suoi toni cupi e negli ambienti decadenti, la pellicola barcolla verso la conclusione, che opera un atto di pietà evitando di mostrarci la rovina: una macchina è lanciata verso il nulla, non andrà da nessuna parte, in partenza verso l’inferno è già arrivata, scompare all’orizzonte mentre le didascalie in scorrimento sono stilettate sulla pelle. La naturale conclusione per la messinscena in nero di una tragedia, declinazione di un uomo stra-ordinario condannato ad una fine qualunque. Kilmer pesca l’asso della sua altalenante carriera, affiancato da due pezzi di femmina: l’antico degno di rispetto (Lisa Kudrow) e l’invasione del nuovo (Kate Bosworth: rivelazione), entrambe modellate su un livello antitetico d’ambiguità (la freddezza – il sentimento). Elementi sparpagliati che congiungono per determinare la riuscita del film: storia di un uomo che preferì il suo membro alla moglie, come viene esplicato nella scena più simbolicamente potente. Una deriva a tinte forti, che non conosce sconti e nelle parole di Sharon sputa la sua terribile sentenza: “Chi vende il proprio corpo è una puttana”.