Azione, Sala

TOP GUN: MAVERICK

TRAMA

Il capitano Pete “Maverick” Mitchell, collaudatore di aerei sperimnentali per conto della Marina, viene richiamato come istruttore alla scuola Top Gun, in vista di una pericolosa missione per la quale i piloti devono essere addestrati “alla vecchia maniera”. Tra gli allievi c’è c’è Bradley “Rooster” Bradshaw, figlio del suo vecchio amico e navigatore, Goose, morto 30 anni prima in un incidente durante l’addestramento.

RECENSIONI

Di rado si sono viste operazioni così lucide e così riuscite. Tornare sul luogo del delitto di un film storicizzato, mitizzato (e invecchiato) come Top Gun poteva essere molto rischioso: un eccessivo ammodernamento avrebbe tradito la fonte, un’adesione acritica poteva risultare stucchevole, per il pubblico contemporaneo vivente. Kosinski trova la quadra. La parte schiettamente mimetica è posta in apertura: titoli di testa, musiche, taglio delle inquadrature, regia, siamo nel 1986. Stacco su una citazione visiva di The Searchers e, cinematograficamente parlando, si esce/entra nel 2022, con ulteriori agganci all’86 ma solo profilmici (la giacca, le foto, la moto). Tom “Dorian Gray” Cruise è perfetto per la bisogna: è lui e non è lui. E’ marginalmente invecchiato, certo, ma è sempre, credibilmente, quel Maverick. Così come Top Gun – Maverick è e non è quel Top Gun.

Il film è tutto giocato su questa doppia spinta, su queste due anime dell’essere  e del non essere. Maverick non può non essere Top Gun ma, insieme, non lo è ed è un film su Top Gun – e sull’action movie anni 80 più in generale -. L’Eroe Buono è Buono, l’Amicizia Virile è Virile, le psicologie dei personaggi si dispiegano in una manciata di secondi e gli esiti narrativi (tutti) sono prevedibili e previsti da chiunque con esattezza millimetrica. E’ quel cinema lì. Una rassicurante coperta di Linus che, in parte (inutile negarlo), viene resa ancora più calda e comoda dall’effetto nostalgia ma in parte è anche riprodotta (ossia scritta e girata) a regola d’arte. La sceneggiatura non sbaglia un colpo, è ruffiana e ricattatoria (in senso buono) e non lascia molto scampo. Si può decidere di rifiutarla, certo, ma se si abbassano le difese, e non costa molta fatica abbassarle, è davvero difficile non divertirsi (ed è facile emozionarsi, anche).

Poi ci sono la regia e il montaggio. E qui (Bruckheimer), Kosinski, Hamilton e Lebenzon – già montatore dell’originale - fanno una scelta di campo sensata da un lato e vincente dall’altro: puntare sull’(almeno apparente/percepito) analogico vecchio stile. Le sequenze di volo e di battaglia aerea hanno una fisicità sostanzialmente estranea al cinema CGI-izzato a cui ci siamo assuefatti negli ultimi lustri. Le evoluzioni e gli inseguimenti sono concitati me sempre chiari nel loro sviluppo micronarrativo e, soprattutto, il montaggio alternato con primi e primissimi piani sui volti degli attori rende tangibili la fatica e lo sforzo necessari per pilotare un F/A-18. La proverbiale ciliegina sulla torta è un sound design perfetto nel suo puntare sulla magnificazione del dettaglio meccanico, quasi materico – il movimento nervoso della cloche, con tanto di allarmante fondocorsa – che dà un contributo decisivo a creare l’aura di (presunto) realismo.

Viste e considerate tutte le circostanze, il sequel perfetto.