TRAMA
Josef, sessantacinquenne professore di liceo, necessita di una svolta per tornare a sentirsi vivo…
RECENSIONI
Della travagliata gestazione di Vuoti a rendere dicevano anche stralci di Tatinék, il documentario dedicato da Jan Sverak alla figura di Zdenek, suo padre, suo sceneggiatore (gli unici lavori del figlio in totale autonomia rimangono l’esilarante cortometraggio di diploma Ropaci e l’amaro divertissement on the road Jìdza), suo interprete feticcio, nonché monumento per la cultura nazionale ceca. Tatinék diceva- anche- dell’incrinarsi di un rapporto di collaborazione consolidato (e dei riflessi familiari del caso), scalfito dall’insuccesso del pur dignitosissimo Dark Blue World e tentennante perciò di fronte all’ennesimo nuovo progetto. Oltre che inutile, risulta difficile immaginarsi questo Vuoti a rendere privo della figura di Sverak padre: ideale chiusura di una trilogia iniziata con l’infanzia di Scuola elementare (esordio e- tutt’ora- miglior film di Jan), proseguita poi con la maturità del premio Oscar Kolja, Vuoti a redenre suggella, fotografando la terza stagione della vita, un tragitto che- ripercorrendo la vita di Zdenek- affonda le radici nella storia recente della Repubblica Ceca, scandita in tappe significative, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale passando per gli sgoccioli dell’influenza sovietica, per giungere, ora, all’attualità. La senilità secondo Sverak padre, nel territorio della contemporaneità: Vuoti a rendere descrive semplicemente il rapporto tra vecchio/nuovo- un rapporto autobiografico e storico- con la consueta ironia pacata ed affettuosa, con sobrio equilibrio che punta alla complessità partendo dalla macchietta, dosando sapientemente dramma intimo e facili concessioni al già visto, abbandonandosi ad uno scialo di simbolismi di ovvia riconoscibilità con cui tratteggia però personaggi complessi, umanamente contraddittori, in un gioco dialettico che ci pare cogliere pienamente il senso tutt’altro che deteriore dell’aggettivo popolare. La regia di Jan, abile narratore, assorbe con accuratezza i toni della sceneggiatura, facendosene specchio fedele, alternando ad un andamento compito e composto (che lascia alla recitazione e al testo il compito di dire) aperture fondate su una divertita ed esibita banalità stilistica (i frammenti onirici, le soggettive traballanti e offuscate del protagonista). Cinema popolare dunque, intelligente, velatamente didattico senza mai essere autoritario, buonista per scelta, ma tutt’altro che cieco di fronte alla realtà. Cinema che se assolve lo fa con l’amaro garbo del sorriso, non attraverso la sbracata strafottenza della risata. Cinema come se non se ne fa più.
Cinema de papa, in ogni senso possibile.
