TRAMA
Il viaggio del Ragazzo: affidato dai genitori perseguitati a un’anziana madre adottiva, rimasto solo, vaga per le campagne, spostandosi tra villaggi e fattorie. Nella sua lotta per la sopravvivenza, il Ragazzo è esposto all’atroce brutalità messa in atto dai superstiziosi contadini locali e assiste alla violenza inaudita dei soldati russi e tedeschi, efficienti e spietati. Al termine della guerra, il Ragazzo è cambiato, per sempre.
RECENSIONI
Forse aspirava a più roboanti scandali Václav Marhoul, dopo un sesto di vita speso in travagli produttivi per portare sul grande schermo il capolavoro di Jerzy Kosinski, famigerato caso letterario statunitense bersagliato da infervorate accuse di mistificazione e millanteria, dopo un iniziale e comunque mai sopito plauso. Per quanto qui le lodi non siano esattamente fioccate, il film anzi a ben vedere tra i più bistrattati del Concorso veneziano sembra infatti voler trasporre pedissequamente non solo le vicende interne al romanzo, ma anche quelle editoriali esterne, bandendo ogni scrupolo e buon gusto pur di conquistarne la polarizzante visibilità e l’aura maudit. Se allora il catalogo di provocazioni, eccessi (la durata gonfiata il tanto da distinguersi senza ostacolare la distribuzione), sperimentalismi (primo film in un’impersonale lingua interslava che non scontenta nessuno, miopi e dislessici compresi: dialoghi e relativi sottotitoli occupano poco più di una manciata di minuti), il tutto indorato dalla rassicurante presenza di star europee e americane, fa registrare un apprezzabile coefficiente di fughe dalla sala dopo averla adeguatamente riempita, non basta però certo impallinare bambini o ingurgitare bulbi oculari per potersi fingere il danese divisivo di turno, dominando ribalta e testate (ben lo sa Jennifer Kent, che nella scorsa edizione occupava col curiosamente altrettanto ornitologico The Nightingale la pericolosa intersezione tra quota rosa e quota scandalo, per ragioni non dissimili detonata all’anteprima stampa in imbarazzanti schiamazzi più chiacchierati dell’altrimenti mediamente dimenticabile film stesso). The Painted Bird non riesce ad alimentare un dibattito arricchente – quale che sia la parte presa – per chi vi si confronta (o ne cura le vendite internazionali), sicché il suo sfacciato esibizionismo finisce con l’essere per lo più (e per lo più meritatamente) tacciato in toni liquidatori di variamente declinata pornografia.
Se l’occhio refniano – indigesto oracolo di un’immagine stupendamente ferina e cannibale, annichilente e invincibile – non solo colpiva ma squarciava lo stomaco con le sue implicazioni, qui il paio d’occhi (si pretende tutta la nostra attenzione?), violentato e malconcio, viene delicatamente riposto nelle orbite del povero bracciante incorso nell’ira di Udo Kier come se nulla fosse stato: il rifiuto di prendere una qualche posizione nei confronti dell’annosa questione est-etica è totale. Stante la probabile scelleratezza in partenza di questo programma (senza scomodare la poetica epocale di László Nemes, si pensi per contrasto agli efficaci Orizzonti (2013) fiabeschi del tematicamente simile Wolfskinder), si potrebbe provare a giustificarlo se l’ostinazione con cui viene perseguito il ricattatorio full frontal di miserie, violenze e orrori non s’incrinasse inevitabilmente in più punti. Ci si riscopre infatti pudichi a dover glissare sui particolari più scabri (la porta chiusa sullo stupro) o a virare improvvisamente il realismo efferato in un più simbolico ed estetizzante grottesco (battesimo/resurrezione di sangue officiato da corvi, utero/gabbia di una Grande Madre ninfomane da cui si libera l’uccello eponimo subito dilaniato dai consimili, confessione del pedofilo – trascinato poi dal suo legame morboso in un abisso di ratti predatori – accompagnata da un organo muto) senza innestare alcuna riflessione sull’occhio che così processa i fatti, sia esso intradiegeticamente quello del protagonista che incassa praticamente impassibile ogni granguignolismo, o extra- e più gravemente quello del regista che s’impone allo spettatore.
La studiata potenza delle immagini nasconde allora nient’altro che un esausto manicheismo per cui chi non è oppressore è oppresso (polarismo tradito già dal (troppo) magnetico 35mm in bianco e nero contrastatissimo di Vladimír Smutný), mentre la scrittura si arena con banale cinismo sull’ossessiva reiterazione del Male. Programmatica la scena d’apertura, in cui il movimento lineare della corsa del protagonista viene spezzato dalle botte e dal montaggio serrato e diventa circolo sfrenato e terribile di un furetto arso vivo, anticipando l’inanellamento di nove olocaustiche variazioni sul tema, intitolate ai perversi tutori cui il bambino di volta in volta si affida e che invece il suo nome – e quindi gradualmente la sua identità – sopprimono. Ridotto a un’opaca silhouette, sarà lui nell’ultimo episodio il carnefice, per poi redimersi nella svolta speranzosa del finale: dopo che il padre gli ha dimostrato di saper essere ancora sé stesso, difendendo ed esibendo il proprio nome nonostante il marchio sul braccio (si mette dunque in parallelo la tragedia itinerante del bambino con quella dei campi di sterminio e si ribadisce la scala universale del massacro), il bambino ritrova la trasparenza di un vetro dove riesce in extremis a tracciare il suo (che, con nostra grande delusione, non è Giobbe ma solo Joska).
Eppure, al netto delle scelte infelici (in parte sicuramente dovute – come s’è detto – a un’aderenza al romanzo troppo testuale e noncurante delle diverse e spinose criticità del mezzo cinematografico in quanto a rappresentabilità), non si può negare a Marhoul una certa disturbante abilità nel catturare – anche senza cucchiaio – gli occhi dello spettatore, complice la produzione sontuosa (impressionante la scenografia) e la regia esperta e a tratti virtuosistica o furbescamente citazionista (Tarkovskij). Il sospetto è però che per poter apprezzare quest’opera, gli occhi pur rapiti li si vogliano troppo spesso saldamente chiusi di fronte a problemi e questioni irrisolte (non da ultimo il dilemma delle storie (presumibilmente) vere a far da sfondo a una (auto)biografia spiccatamente di finzione e romanzescamente inverosimile, la cui non sempre chiara discriminazione già aveva creato più di un grattacapo a Kosinski), col rischio di veder trasportato il tutto in una dimensione di (doppio?)sogno e fantasia, dove l’immagine domina in tutta la sua apatica magnificenza ma spoglia di vero significato, uccello riccamente variopinto ma privo di artigli con cui affermarsi. E, a maggior ragione considerando la Storia di cui si sta parlando, tra tutti gli orrori ostentati è forse questo involontario e subdolo del finire col guardare altrove il più repellente.
Va’ e anvedi che bbello ‘sto bianco e nero.