Drammatico

TUTTO PARLA DI TE

TRAMA

L’inquietudine della giovane Emma e la memoria dolorosa dell’anziana Pauline sembrano avere una matrice comune.

RECENSIONI

La mistica della femminilità – tuttora potente di nefasta seduzione – continua a mietere le sue vittime, dopo tanti anni.
Il film di Marazzi esprime appieno tale mistificazione. Muove dai drammi della depressione post partum, e pretenderebbe di scrutarne le ragioni. Film-saggio? Film-inchiesta? Film-pamphlet? Manco per sogno; confondendo l’indagine con la sommatoria di testimonianze, lo scandalo con la cronaca nera, la grande visione d’insieme con la commozione che si commuove di se stessa, si limita a passare in rassegna una serie di dolorose e talora tragiche vicende, sulle cui protagoniste la sciagura si è abbattuta non per caso oscuro o cinico fato; furono costoro – lo rivelano autobiografiche narrazioni e giustificazioni - le seguaci d’un culto antico e superstizioso, quello della necessaria maternità sacrificale delle donne. Non sentendosene all’altezza, perché le esigenze dell’io premevano, esse persero la testa macchiandosi di orribili misfatti.

La materia è tetra, e la sua tragica durezza meriterebbe un regista etnologo o psicologo del profondo. Dobbiamo qui accontentarci del sentimentalismo vittimistico, cascame borghese della psicologia da madame che va di moda sulle pagine dei settimanali. Su questo scenario, muovono la giovane madre Emma e l’anziana Pauline, dal misterioso passato (e soprattutto dal misterioso presente: che ci fa in un continuo vai e vieni per le strade o infilata come il prezzemolo in un centro di aiuto per le madri in conflitto con se stesse?). A scene alterne, la suddetta signora mette ordine nella casa dell’infanzia, trovandosi tra le mani memorie fatali; con sciabolate registiche inaudite, partono i ricordi in bianco e nero, e le famigliari scene evocate lasciano supporre che anche Pauline abbia a suo tempo soppresso il figlioletto.

Pauline osserva Emma, ne spia i movimenti e le angosce; ne vince la scontrosa diffidenza e la esorta ad aprirsi, a non nascondere le proprie paure. La tensione narrativa resta al grado minimo; né il colpo di scena finale sortisce qualche seppur epidermico effetto, non imponendo allo spettatore alcun rovesciamento nell’interpretazione della materia. La mescolanza documentario-romanzesca è non riuscita, per usare un eufemismo: le confessioni delle madri assassine, i dilemmi della giovane protagonista assediata dalla matura consigliera, il ripetuto naufragare di quest’ultima nel dolceamaro passato, si susseguono con metronomica cadenza. Se la nervosa inquietudine di Emma è ben resa da Elena Radonicich, l’antica obliqua bellezza di Charlotte Rampling si è trasformata in una fissità iconica non propriamente espressiva. La morale della favola – ché di storia educativa si tratta – è conforme alla nebulosa quanto rinunciataria concezione teorica: “tu sei salva, perché non sei sola”. Dal potenziale dramma sociale, o perfino antropologico, al fotoromanzo.
Dei ricchi pregi formali e della sapiente costruzione, si è detto. Si può perdere; si può dimenticare.