TRAMA
Julie perde il marito compositore e la figlia in un incidente d’auto. Fa di tutto per dimenticarli, vende ogni cosa, cambia casa, fugge.
RECENSIONI
Il primo capitolo (Leone d’Oro a Venezia) di una trilogia dedicata ai colori della bandiera francese (Blu/Libertà, Bianco/Uguaglianza, Rosso/Fratellanza), purtroppo, risolve una composizione sinfonica d’alta classe in un messaggio edificante scontato (nella sostanza) e banale (nella forma). Tutto il magnetico cinema di Kieslowski si muove fra due opposti rischiosi: la complessità filosofica che può arenarsi su piani ostici e ambigui, e la morale potenzialmente didascalica. Quando l’autore trova l’equilibrio fra i due poli, sfiora il capolavoro. Il découpage dell’incipit è magistrale: un delicato barocchismo in inquadrature e montaggio che trasporta in una dimensione metafisica attraverso uno sguardo sofisticato. Nessuno è mai riuscito ad andare tanto “oltre” attraverso l’evocativa ricercatezza formale, ad astrarre a tal punto la fenomenologia da portarla direttamente al cospetto dell’Anima Universale, facendo esperienza dell’essenza più intima dei sentimenti, delle sensazioni, della Vita tout-court. In pochissimi, con le immagini, gli sguardi degli interpreti, i silenzi, i simboli, le allegorie, le emozioni celate da giochi di luci e colori così intimi, sono riusciti a riprodurre la complessità dell’umano attraverso il “non detto”. La Julie di Kieslowski è una donna che fugge da se stessa, che crede di esorcizzare la tragedia distruggendo le prove della sua esistenza, senza comprendere che é ricominciando, affrontando la Realtà, amando che si è liberi. Anche il ricordo doloroso è blu (la stanza che fa sgombrare, la piscina in cui s’immerge, i cristalli del lampadario) e la perseguita insieme alla composizione musicale del marito (splendida la sequenza sulle scale, dove il riflesso dei cristalli sui suoi occhi rivela impercettibili lacrime). La paura dei topi (risolta con un gatto) e lo stesso suicidio mancato sono emblemi dell’incapacità di vivere fino alla fine, per superarli, i timori. Anche Kieslowski smarrisce il finale: l’ovvio urlato, il coro che inneggia all’amore come unico sapere che perdura, la passerella di tutti i personaggi, il compagno e il figlio ritrovati, rovinano un materiale splendido.