Horror, Recensione

THE VVITCH

Titolo OriginaleThe VVitch: A New-England Folktale
NazioneU.S.A., Gran Bretagna, Canada
Anno Produzione2015
Genere
Durata92’
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Costumi

TRAMA

New England, 1630. Dietro la minaccia di essere bandito dalla chiesa, un contadino inglese lascia la sua piantagione coloniale, trasferendosi con la moglie e i cinque figli in un appezzamento ai margini di una foresta nella quale si annida un male ignoto. Quasi immediatamente iniziano ad accadere cose strane e inquietanti: gli animali diventano ostili, il grano si guasta e uno dei bambini scompare, mentre un altro sembra posseduto da uno spirito maligno. Con l’aumentare del sospetto e della paranoia, i membri della famiglia accusano la figlia adolescente Thomasin di stregoneria, accusa che la ragazza respinge categoricamente. Le circostanze diventano sempre più insidiose: la fede, la lealtà e l’amore di ogni membro della famiglia vengono messe a dura prova.

RECENSIONI

Il cinema Horror è un po’ come la musica Metal: più ingloba e metabolizza elementi estranei al genere, magari con piglio concettuale, più viene ritenuto universalmente presentabile, più ottiene consenso critico. A volte a ragione (It Follows) altre meno (Babadook) ma la sostanza è un po’ quella. Prendiamo questo The VVitch. Si parla di streghe ma lo si fa in un contesto di – come si dice - accurata ricostruzione storica, sotto luci naturali alla Barry Lyndon, con inquadrature calibrate al millimetro che non nascondono le loro ambizioni pittoriche e seguendo la stella polare della sottrazione. Il ritmo è studiatamente lento, la narrazione procede per piccoli passi costellati di ambiguità, gli effetti facili spesso perseguiti dal cinema horror sono evitati come la peste e si vuole insinuare il dubbio che, in realtà, si parli di stregoneria per parlare di altro. Nella fattispecie, l’integralismo religioso, la misoginia, le pre- e la post-adolescenza, la disgregazione famigliare, sono tutti temi che si insinuano nel tessuto drammatico e che spesso prendono il sopravvento, tra echi di Paul Thomas Anderson e momenti arty quasi alla Begotten (il sound design - e non solo – di tutta la sequenza delle strega che sacrifica il bambino).

Ora, sulla carta sembrano tutte cose buone e giuste, e in parte lo sono. TVV, però, non mantiene quello che promette e si tradisce, progressivamente, da solo. Alle esche tematico/narrative, ad esempio, si danno seguiti un po’ approssimativi. L’attrazione semi-incestuosa di Caleb per le forme della sorella, ad esempio, cinematografata con due soggettive metaforiche sul seno di lei, viene dimenticata per un po’ per poi perfezionarsi con l’apparizione della strega pettoruta che lo strega, chiudendo il cerchio in maniera grossolana. Similmente, anche gli altri snodi tematici citati non subiscono evoluzioni veramente degne ma vengono semplicemente accumulati per poi concludersi così come erano iniziati, senza approfondimenti e senza che il posizionamento dello spettatore venga veramente problematizzato. Sembrano peccati veniali ma, a conti fatti, non lo sono. Perché l’idea dietro a TVV sembra essere quella di confezionare un horror sui generis, raffinato, profondo e intelligente, ma l’idea di Cinema di Eggers non è abbastanza forte da sostenerla. Sotto alla messinscena elegante, all’accurata ricostruzione linguistica (persa completamente nel doppiaggio), infatti, non c’è abbastanza altro. E, soprattutto, ci sono meno solidità e coerenza di quelle che sembrano.

Il difetto maggiore di The VVitch, infatti, oltre alla sostanziale ma perdonabile pretenziosità, è proprio la sua costruzione. Un film strutturato in questo modo, col suo incedere minimalista e meditabondo e, ribadiamo, non abbastanza robusto dal punto di vista tematico, aveva bisogno di reggersi su qualcos’altro per funzionare davvero, come una ambiguità di fondo che invece sembra solo accarezzata come ipotesi non suffragata dai fatti. Le streghe esistono o sono solo frutto di segnali male interpretati (un cattivo raccolto, ad esempio) sulla base di ottusità di origine religiosa e superstiziosa? Sarebbe stata questa, teoricamente, la domanda chiave capace di tenere in piedi la baracca fino alla fine. Ma subito a partire dalla sparizione improvvisa e sovrannaturale del piccolo Samuel, sotto gli occhi sbigottiti e terrorizzati di Thomasin, con la strega che trascina il bambino nel bosco e il successivo rito demoniaco notturno, le cose, quelle importanti, sono già chiare. Le streghe esistono e Thomasin, almeno inizialmente, è innocente/inconsapevole. Tutto il resto, dalla lepre al caprone passando per gli altri due fratellini, contengono sì dettagli misteriosi da decifrare ma intaccano solo marginalmente la chiarezza di fondo.
Ne risulta un film elegante ma freddo, un horror obliquo scevro di effettacci e spaventi a buon mercato ma incapace di dare in cambio, allo spettatore, vere, tangibili profondità e tensione (anche morale) per dotarsi di una personalità cinematografica realmente autosufficiente. Si può comunque rimanerne affascinati, certo, e non ritenerlo il bluff che io credo di vederci chiaramente. Ma si può anche, legittimamente, seguirlo con progressivo disinteresse fino a un finale pleonastico che rischia di sconfinare nel ridicolo.

Predicato, invocato, implorato, Il Divino in The Witch è quanto di più assente ci sia. C'è un raccordo, a suo modo brutale, che sancisce la totale lontananza da tutto ciò che è metafisico: un'inquadratura insistita del cielo, con successivo stacco su William che sta pregando volto a terra, funziona come elemento autonomo di un film dove non si guarda mai verso l'alto.Potrebbe essere una soggettiva, in realtà si tratta di uno sguardo neutrale, oggettivo.Siamo noi che osserviamo. Possiamo così contemplare, per un brevissimo istante, quello spazio di salvezza che ci sarà immediatamente negato.Il movimento di macchina successivo, infatti, si oppone alla famiglia che volge gli occhi verso quel cielo che da poco abbiamo contattato, richiamando la nostra attenzione in direzione del bosco, il vero luogo-anima dell'opera.The Witch, pur giocando con il simbolismo, radica la vicenda dentro l'umano e "rinnega" Dio. Quello che realmente interessa al film, è dare forma ai desideri più profondi dei personaggi, utilizzando, mediante l'analogia, gli elementi propri dell'immaginario di riferimento. È sì un film di genere, ma ancor di più uno squarcio dell'inconscio che si ribella a dogmi, superstizioni, castrazioni che cercano di arginarlo.

Thomasin, per esempio, totalmente inconsapevole, incarna l’elemento destabilizzante che disgregherà il sistema famigliare. Da una parte è la vittima, perché accusata di stregoneria e presa di mira dalla feroce gelosia della madre, dall’altra è la carnefice che tutto muove.Seguendo un approccio letterale The Witch è senza dubbio la storia di una strega che vive in un bosco e caccia le sue prede, ma, andando in profondità, emerge un’ambiguità molto più problematica. Osservando le varie dinamiche che portano alla scomparsa dei suoi fratelli, troviamo un elemento comune: Thomasin ha gli occhi chiusi.
Immedesimata nel gioco del cucù, priva di sensi dopo una caduta da cavallo, addormentata nella stalla-prigione; in tutte e tre le situazioni è il suo sguardo a mancare. È la ragazza, dotata di poteri magici, che nei momenti di abbandono fa emergere quel desiderio di libertà dagli esiti mostruosi, che la pervade.L’obiettivo, sempre sul piano dell’inconscio e del desiderio, è più che evidente: distruggere la gabbia della famiglia per essere libera (il patto finale con Black Philipp è la sua salvezza).
Analizzando nello specifico, vedremo come i tre momenti citati di Thomasin sono coerenti con quanto accade ai fratelli: il neonato sparisce (il bubù-settete funziona proprio sul ci sono/non ci sono), Caleb è attratto dal corpo lussurioso della strega riproponendo una dinamica simile vissuta con la sorella, i due gemelli urlano e svaniscono come se si fosse compiuta la vendetta profetizzata a suo tempo.Il film, allo stesso tempo, insiste sull’atto della ragazza che guarda di fronte a sé, tanto che la prima e l’ultima inquadratura sono un primo piano del suo volto, in una sorta di struttura circolare. Questa soluzione ritorna insistente, quasi a intensificare ulteriormente la pulsione della giovane a volgere lo sguardo verso uno spazio che nel profondo vuole “trascendere”. Ecco quindi che, in un susseguirsi di primi piani e conseguenti controcampi, l’ultima immagine (campo) del finale non ha un oggetto dello sguardo. Non ci sono più limiti e chiusure. Thomasin è libera.

Nella tetra e perenne sottoesposizione della luce naturale, The Witch richiama a chiare lettere l’opera di Goya, un referente pittorico quanto mai cristallino nel rendere l’atmosfera negra del film.E’ un esempio di horror abbastanza atipico, per come rifugge il jump scare e predilige il tratteggio di un universo cupo e tormentato come motore dell’angoscia, quasi a dirci che i mostri siamo noi, nei nostri meandri più oscuri.
In un clima sostenuto da una recitazione volutamente iperrealista, ingabbiata nei moti dell’animo dei suoi personaggi, l’opera prima di Robert Eggers è un congegno calcolato e ben studiato che non si limita unicamente alla compagine estetica.E’ un film pieno di suggestioni, in parte riuscite, in cui il regista riesce a dare il meglio di sé nello sviluppo del tema della sessualità. Basti pensare all’ossessiva ricerca di un albero di mele che, guarda caso non si trova, o agli interrogativi nevrotici della madre che definisce innaturale quanto di più “naturale” sta accadendo. O ancora all’estasi di Caleb, con quel blasfemo orgasmo che anticipa la rinascita della protagonista, forse la sequenza di maggior impatto emotivo.