Drammatico, Focus, Raiplay

THE TREE OF LIFE

TRAMA

Una famiglia degli anni ’50 a Waco, un uomo alienato tra i grattacieli di Houston, l’esistenza dell’universo.

RECENSIONI

Palma d'oro al 64º Festival di Cannes, The Tree of Life, quinto lungometraggio del regista-filosofo Terrence Malick, è una favola gnostica sviluppata in forma di rapsodia cinematografica. Gnosi come conoscenza da parte dell'uomo della propria natura di scintilla divina strappata all'Essere Supremo e della propria condizione di esilio sulla terra. Risveglio e liberazione dalla prigionia terrestre in un processo di conoscenza illuminata dall'esperienza emotiva della negatività del mondo, del suo sostanziale non-essere. Già nella Sottile linea rossa Malick aveva dato vita, mediante la vicenda del soldato Witt, a un'interrogazione dal forte sapore gnostico (lo spaesamento di fronte alla guerra nel cuore della natura, la visione di un altro mondo, l'evocazione dello scintillio interiore). Ma con The Tree of Life, indiscutibile summa della poetica malickiana, l'inafferrabile cineasta di Waco porta alle estreme conseguenze la concezione abbozzata nel film del 1998 e squaderna un Mito che ha per teatro l'intera esistenza universale. Un Mito che trascende e comprende la determinazione temporale situandosi sia in un qui e ora ben preciso (gli anni '50 a Waco, l'oggi di Houston) sia in una dimensione che va dagli albori alla fine dei tempi (dalla cosmogenesi all'espansione del sole in Gigante rossa).

Se la traiettoria ideale e il serbatoio di simboli sono attinti alla tradizione gnostica, l'arrangiamento cinematografico segue un andamento liberamente e liricamente heideggeriano. Traduttore nel 1969 di Vom Wesen des Grundes (L'essenza del fondamento, 1929), Malick ha assimilato dall'Heidegger di Essere e tempo (1927) - considerato da più filosofi una versione moderna della gnosi antica e un romanzo gnostico in linguaggio fenomenologico - il dramma che apre l'Esserci (questo ente che noi stessi sempre siamo) all'Essere (il non-ente del mondo, il Niente creativo da cui derivano e in cui si risolvono gli enti del mondo). Connotato in senso inequivocabilmente gnostico da Malick (ovvero come luce divina), il Niente si rivela all'uomo per mezzo dell'angoscia: una situazione emotiva che si presenta inaspettatamente, procura spaesamento e precipita il mondo nella più completa insignificanza. Tuttavia è proprio questa esperienza emotiva ad aprire l'Esserci all'Essere o, come ci mostra The Tree of Life, l'uomo a Dio. Questa apertura è al tempo stesso disorientamento e chiarificazione, solipsismo e rivelazione: un non-sentirsi-a-casa-propria e una presa di coscienza. È in virtù di questa angoscia spaesante che il soggetto dispone di quella possibilità di essere che consiste nel porre il problema. Come sostengono Marc Furstenau e Leslie McAvoy in Terrence Malick's Heideggerian Cinema: "il cinema di Malick è da considerare come una forma di rivelazione o esibizione poetica, un modo di ridestare il nostro perduto senso dell'Essere". Non è forse un'angoscia simile a spingere Mrs. O'Brien (Jessica Chastain) a pronunciare parole quali "Voglio morire, voglio stare con lui" di fronte alla morte del figlio?

E non è forse uno spaesamento simile a contraddistinguere l'atteggiamento di Jack adulto (Sean Penn) nella città-gabbia di vetro e acciaio e a farlo rivolgere a Dio con la prima frase enunciata dal film: "Fratello, madre: sono stati loro a condurmi alla tua porta"? Devota seguace della Via della Grazia indicata dalle suore, la signora O'Brien viene devastata dall'annuncio della morte del figlio R.L. (Laramie Eppler), sprofondando in uno stato emotivo in cui la familiarità quotidiana frana su se stessa. È solo allora che formula il tragico interrogativo: "Signore, perché? Dov'eri?". Ed è proprio dopo questa domanda fondamentale che ha inizio la cosmogenesi, con l'esplosione all'origine della formazione dell'universo, le protostelle, la nascita della Terra, la comparsa delle forme di vita e l'era dei dinosauri. Ma prima di tutto ciò la voce over di Jack, ancora rivolgendosi a Dio, ha domandato: "Come sei arrivato a me? Sotto quale forma? Con quale aspetto? Vedo il bambino che sono stato, vedo mio fratello. Leale, gentile. È morto quando aveva 19 anni. Come ti ho perduto? Mi sono allontanato, ti ho dimenticato". Compare qui il motivo della dimenticanza intrisa di straziante nostalgia, l'oblio dell'anima della sua caduta nel mondo: l'agnosia (ovvero l'ignoranza del divino) in termini gnostici, la deiezione (ossia lo scadimento dell'uomo al livello delle cose) in termini heideggeriani. La voce del fratello dice semplicemente: "Cercami". Figura salvifica se mai ve n'è stata una, il piccolo R.L. rappresenta quel messaggero che, con la sua vita e la sua morte, opera il risveglio della madre e di Jack, indicando loro una via diversa da quella impartita dalle suore o imposta dall'avidità dell'affermazione pubblica (la carriera che Jack a un certo punto mostra di disprezzare).

Si tratta della riproposizione sotto mentite spoglie di un personaggio che appartiene a una storia antica, naturalmente gnostica. Nel suo saggio Martin Heidegger: dallo gnosticismo alla gnosis greca, Maria Gloria Vinci la riassume esemplarmente: "La storia antica è quella dell'Anima straniera, che gettata nel mondo e divenuta prigioniera dei suoi allettamenti terreni, si perde in esso fino ad ubriacarsene, fino a dimenticare del tutto la sua Origine divina e a dimenticare, persino, quella stessa dimenticanza. Nella prigione cosmica (...) l'uomo vive il dramma della sua estrema lontananza da Dio e da se stesso, finché un Messaggero divino si fa strada nell'oscurità del mondo, per rivelare all'uomo una conoscenza in grado di salvarlo. Da quel momento le anime di alcuni uomini cominciano il proprio risveglio, che consiste, innanzitutto, in un senso di estraneità/alienazione rispetto al mondo e agli altri uomini. La struggente nostalgia che essi provano per l'autentica dimora di luce divina di cui essi furono, in tempi precosmici, abitatori, li porta ad intraprendere un viaggio di ritorno (...): dall'oscurità alla luce, dalla materia allo spirito, dalla molteplicità all'unità, il pneuma dell'uomo, al termine del viaggio, si ricongiunge al Pleroma del fuoco divino, da cui un tempo, per una colpa originaria, si staccò come una scintilla «impazzita», che, tuttavia, non si spense mai del tutto".

Sontuosa messa in scena di una ricerca dalle conclusioni filosofiche chiare dal principio, The Tree of Life simula cinematograficamente un percorso: la macchina da presa disegna un flusso inesausto, si ancora agli individui, cerca il cielo inverando domande esistenziali, fruga tra i fili d'erba, s'inabissa nella terra, mentre il montaggio affidato a cinque forbici differenti denigra l'unità di tempo interna alle sequenze, in una sintassi emozionale che, sulle note dello spartito di Alexandre Desplat, libera associazioni e delinea tremori e dissidi al di là dello psicologismo, semplicemente perché inattingibili interamente dall'uomo. Semplicemente perché più grandi. Girato come da un altrove, eccede ogni punto di vista, compreso quello di Jack, in una partitura di voci fuori dallo spazio/tempo, frammenti colti da un tutto (un universo di pellicola scartata al montaggio) che suggeriscono nella discontinuità e nell'eterogeneità, nelle ellissi e nelle digressioni, la vastità a forza incompiuta dell’'esplorazione, i balbettamenti del pensiero, le sue inerzie, l'inaffidabilità delle sue certezze. Esempio raro di blockbuster autoriale, come forse solo Stroheim, Coppola e Cimino in passato, sacrifica con sdegno ogni dinamica hollywoodiana sull'altare di un discorso, in un atto di candida tracotanza, solenne nel professare il proprio credo filosofico, dono a cuore aperto, pulsante di cieca superbia apostolica, in sincopi esaltate, sincere e scoperte sino all'autolesionismo.

Il centro focale di questo itinerarium in Deum in bilico tra esemplarità e proselitismo è la mente, intesa come memoria e coscienza, luogo in cui infinitamente piccolo (la vicenda famigliare degli O'Brien) e infinitamente grande (la cosmogonia) si condensano in un unico momento, quello della conoscenza, del riconoscimento della propria natura divina. Una mente, quella di Jack, che non può che procedere per lampi, bagliori, illuminazioni. E un itinerario che non può che condurre al Pleroma, a quella pienezza di luce in cui il tempo si annulla e alla quale, in un percorso di risveglio sottolineato dai luceat dell'Agnus Dei di Hector Berlioz che scandiscono il ritrovo spirituale sulla spiaggia, il film guiderà i personaggi della pellicola. Macchina a mano in perenne movimento, Emmanuel Lubezki oggettiva la visione di Malick facendo della luce un autentico polo d'attrazione: la cinepresa è letteralmente magnetizzata dalle sorgenti luminose inquadrate, che queste siano lampadine a bassa intensità nella camera dei bambini, lucciole che pulsano nel giardino di casa O'Brien, lampioni stradali o raggi solari. Una rapsodia audiovisiva accordata sulle vibrazioni di luce che striano e vivificano questo film rizomatico e semibiografico (l'ambientazione a Waco, città natale del regista) che ha per fine ultimo la costruzione di un collegamento cinematografico (penultima immagine del film: l'inquadratura di un ponte) tra l'uomo e la fiamma divina (prima e ultima immagine della pellicola). Quel punto in cui, per dirla con Meister Eckhart: "l'angelo più alto e la mosca e l'anima sono uguali".

Giulio Sangiorgio &

Film-esperienza. Apologia teo-con. Magnificenza immaginifica. Kitsch National Geographic. Non si sfugge. The tree of life è opera immensa destinata a dividere, film-monstrum che spinge a schierarsi, challenging come pochi. All’indomani della presentazione a Cannes e della sua accoglienza critica abbastanza imprevedibilmente molto contrastata ma a visione avvenuta comprensibile, parlare di The tree of life significa rischiare il fanatismo malickiano o una posizione di rifiuto parimenti violento, chiudersi in un’afasia estasiata o lanciarsi in una feroce e logorroica analisi grammaticale e logica (e ideologica). Effettivamente l'ultimo film di Terrence Malick è un’opera che per la sua eccezionale natura non accetta posizioni di compromesso e non per un ottuso atteggiamento fideistico ma perché è un’idea radicale di cinema (e di mondo) ad essere messa in gioco (come è accaduto in questi ultimi anni solo con INLAND EMPIRE di David Lynch), quella di una poetica autoriale di superba concentrazione (solo cinque lungometraggi dal 1973 ad oggi) che si pone a misura universale, di uno scavo autobiografico trasfigurato in preghiera cosmica, quella di chi si getta anima e corpo nell’impresa prometeica di sondare i limiti del fare cinema e tentare di oltrepassarli. Proprio per questo stesso motivo però, assodato che non c’è mai da fidarsi di alcuna esaltazione cieca, (mi) risulta ancor più biasimevole l’oltranzismo dileggiante (e gravato da un forte sospetto di rifiuto “à la mode”) a cui i detrattori si sono abbandonati (fino a deliranti accuse di posizioni filonaziste). Chi scrive crede che The tree of life, piaccia o no, entusiasmi o meno, ad ogni modo non se lo meriti, non fosse che per lo straordinario lavoro di messinscena, per l’audacia innegabile del progetto e della sua realizzazione (hollywoodiana nei presupposti, sperimentale nei risultati).

Malick, e sta probabilmente qui il cuore di ogni rifiuto ben al di là dell’ardire musicale della costruzione narrativa, affronta di petto uno dei grandi tabù contemporanei, la dimensione spirituale, assurta nella sua forma religiosa a ideologia totalizzante sulle macerie di quelle politiche eppure rimossa dal quotidiano nella sua espressione più schietta, mettendola al centro della riflessione e dell’azione, mai separandola però dal fattore umano (in territori simili si era avventurato l’ultimo bellissimo Eastwood, generando analoghe reazioni infastidite) e mai irreggimentandola nell’ortodossia stringente di un culto malgrado i riferimenti biblici e cristiani. Accettare il mistero, dunque, senza il sarcasmo nichilista coeniano? No, più semplicemente fermarsi a guardarlo e ad ascoltarlo. Passa anche di qui, dalla disponibilità a un confronto sui principali e irriducibili quesiti esistenziali, il discrimine tra il presunto kitsch (concetto scivoloso che necessita quanto mai di una ridefinizione) e il sublime. Uno dei grossi equivoci nei quali si potrà allora cadere nel leggere (e nel vedere) The tree of life è confondere l’interrogarsi sul senso dell’esistere (privo di risposte assolutistiche) per predicante afflato new age, scambiare la visione di una bellezza insita nelle cose mai disgiunta dal senso della loro caducità (il film prende le mosse da un lutto) e dal dolore dell’esserci e poi non esserci più per catechesi integralista, sovrapporre i nostri schematismi mentali, le nostre convinzioni, a un’opera aperta di cristallina complessità.

Perché la densità filosofica di The tree of life s’impone innanzitutto ai nostri occhi e ai nostri sensi, il suo misticismo è dimensione fisica, tattile.Il maestoso lavoro di regia e montaggio crea una rete fitta e nitida, luminescente, di associazioni e richiami che non si limitano mai a un mero e rigido gioco di parallelismi e contrapposizioni. Il tempo si scioglie, risale al Big Bang, attraversa la creazione, si libra tra i pianeti, fissa l’esplosione solare e s’incanta in un primordiale gesto di pietà, ruota vertiginosamente attorno all’Eden in caduta libera del Texas degli anni ’50 agli albori dell’Era Spaziale e implode negli spazi di vita e morte della famiglia O’Brien (riferimento autobiografico ma anche famiglia archetipica), si squarcia in sprazzi di un presente lucente e mesto che forse è un futuro anteriore, forse nuovo passato, si annulla e rinasce in un finale che è oltre e al di qua di ogni dimensione, here, after. Le architetture vuote e trasparenti di Houston, Space City, in cui vaga Jack adulto sono una nuova costernata Creazione, fatta di acciaio, vetro e cemento, un cosmo da ripopolare. Se le immagini hanno un senso (e ce le hanno eccome), allora va sottolineato come l’inquadratura conclusiva, esclusa la cornice della misterica fiamma iniziale e finale (segno divino, elemento primordiale), non mostri un albero svettante o un cielo immenso in gloria del Signore né raggi di sole beatificanti che sbucano da una nuvola ma un ponte costruito dall’uomo. La rapsodia lussureggiante di immagini e voci è allora flusso scaturito da una sola coscienza, quella di Jack, che da ricordo privato si fa cosmogonia universale, rievocazione proustiana di un coming-of-age di abbacinante e struggente ma anche segreta visionarietà, dilaniato tra le vie incarnate nelle figure del padre e della madre (un Brad Pitt eccellente, una Jessica Chastain di grazia preraffaellita: splendido ed eloquente il momento della morsa-abbraccio tra i due dopo una violenta lite) in inesausta ricerca di un’armonia: à la recherche de l’arbre et du temps perdus. Un Grande Romanzo Americano deflagrato in sinfonia impressionista e sinestetica fatta di tanti piccoli momenti che racchiudono l’eternità, intessuto di un panteismo fervido e fragile: il rabdomante Malick rintraccia nell’umano il mito, nel freudiano il geologico, nell’intimista l’universo. Visione riplasmante: il mondo e il cinema, come se li vedessimo per la prima volta.

Le opere precedenti di Malick erano già impregnate di misticismo e sguardi sull’immanenza della Natura, ma mai a tal punto sono state metafisiche e sperimentali. Il regista filosofo si interroga sul senso della morte (e, quindi, della vita) partendo da due punti di vista, macro e micro (e dalla traccia autobiografica della perdita dei due fratelli). Per quanto riguarda il primo, mentre vari Io-narranti interrogano Dio, Malick viaggia nel cosmo e ne scopre le geometrie esistenziali che rinviene, identiche, negli organismi monocellulari, previe visite ai vulcani e, con effetti digitali, alla preistoria della Terra (un insert a suo modo gratuito, giustificato da un suo progetto abortito nei primi anni ottanta, tal “Q”, ambientato in questo periodo e imperniato sulla ricerca delle origini della vita). Il senso sta nel contrasto: mentre il singolo essere umano non capisce l’indifferenza crudele del creatore, il regista mostra l’ordine dell’Universo, la sua necessaria indifferenza. Nella parte centrale Malick descrive la vita di Jack all’ombra di un padre autoritario e violento, quasi a voler trovare un “altro” senso (micro) alla sua fine, una possibile giustificazione delle scelte future di una mente irrimediabilmente segnata dalla rabbia repressa. Il tutto, previo un altro “excursus” immerso nelle meraviglie della natura, giunge all’Hereafter, restituito attraverso le immagini di una spiaggia dove vivi e morti si rincontrano e anche una madre può offrire, senza più dolore, la vita del proprio figlio a Dio. Una volta colta la chiave di lettura dell’opera, il discorso teologico non è molto complesso fra citazione della vicenda del Giobbe biblico e senso-nonsenso del fato infausto che si abbatte su tutti, giusti ed empi: l’apologo affidato alle parole, alle allusioni e ai rimandi del microcosmo rappresentato (con la troppo ingombrante presenza del Dio cristianamente inteso), non è all’altezza del magistrale, herzogiano lavoro sulle immagini evocative della presenza divina, immerso in splendide sinfonie e voci angeliche. Forse è la pellicola che, più di ogni altra, è riuscita a restituire Dio uscendo dalla pelle umana per esplorare la Perfezione del creato. Un extended cut presentato a Venezia nel 2018 approfondisce il personaggio di Brad Pitt.