Drammatico, Recensione

THE SON

Titolo OriginaleThe Son
NazioneU.S.A., U.K., Francia
Anno Produzione2022
Durata123'
Sceneggiatura
Trattodall'omonima opera teatrale di Florian Zeller
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Kate si reca a casa dell’ex marito Peter per parlare del figlio diciassettenne Nicolas dopo aver scoperto che l’adolescente non va a scuola ormai da mesi. Il giovane, profondamente segnato dal divorzio dei genitori, chiede e ottiene di lasciare la casa materna per trasferirsi da Peter.

RECENSIONI

In The Father, adattato in inglese, come sempre, da Christopher Hampton, Florian Zeller aveva tentato di giocare con gli spazi fisici – sorta di straniante dedalo – facendoli diventare i luoghi di una mente che si andava perdendo. Lo spettatore allo stesso modo smarriva progressivamente tasselli di comprensione, cominciava a confondersi tra le situazioni e i volti: una figlia, un'infermiera, una badante, chi è chi? E dove ci troviamo davvero?
Zeller, traslando la scena dall’ideale palcoscenico a un interno borghese cinematografico, tentava di sublimare – non sempre, riuscendoci – le possibilità spazio-prossemico-temporali che il palco gli offriva nonché l’immediatezza spiazzante della re(l)azione attore-spettatore; in definitiva quella sorta di circuito chiuso che si crea, nonostante – o forse grazie a – i dietro le porte/quinte. La persistenza della memoria, richiamata dal leit motiv di un orologio scomparso/molle, le cui lancette non indicavano più, non significavano più, poteva forse trovare nei luoghi predefiniti e immodificabili – o modificabili per mezzo di un espediente visibile, che sia la chiusura del sipario tra gli atti o qualche marchingegno o il lavoro degli attori-demiurghi – del palcoscenico una risonanza emotiva, un vero e proprio ingabbiamento. Il mezzo cinema, di contro, rischiava di espandere un fuori scena che era lecito immaginare troppo ampio, agitato dal vento che staccava le foglie o che faceva – in un modo che era infine piuttosto esornativo – svolazzare, tra i piedi di un bambino, una busta di plastica.
Si tratta in fondo di riuscire a trovare un equilibrio tra i linguaggi cinematografico-teatrali-letterari, spesso affini, saccheggiati, contaminati e contaminanti, eppure comunque, e sempre, differenti l’uno dagli altri: Cronenberg, su Patrick McGrath (autore di Spider), seppe lavorare da dentro; Kubrick scelse, per la sua versione di Shining, di stare sia dentro che fuori rispetto alla follia di Jack Torrance, di creare una follia abitata (Simon Stephens agì invece secondo un processo di abitamento dell’autismo, con il passaggio dal romanzo alla pièce teatrale de Lo strano caso di un cane ucciso a mezzanotte, di Mark Haddon). Gli esempi che si possono portare sono invero molteplici. Perché in definitiva, e Zeller lo sa bene, raccontare il disagio, la malattia, specie quella neurologica, o ancora quella di competenza psichiatrica (ciò che avviene in The Son e in The Mother), non è facile per nulla.
Lo sa perché è il tema cardine della sua trilogia dei rapporti familiari, alla quale adesso manca solo il tassello di The Mother – che è tuttavia il primo dramma fra i tre a essere stato scritto e messo in scena – per potersi dire cinematograficamente conclusa. The Father, The Son e The Mother sono testi drammatici indipendenti e autoconclusivi; nonostante ciò, in virtù di questo fil rouge rappresentato da una impossibilità – in varie forme declinata – di restare nel qui e ora, anche imparentati: un padre che ha perso una figlia, o forse due, un figlio che non riesce a riallacciare del tutto i rapporti con il padre, reo di essersi costruito un’altra famiglia, e una madre che crede che il marito la stia tradendo con la segretaria e vorrebbe che il figlio, ormai adulto, tornasse ad abitare con i genitori, con lei. Singolare che invece, in The Mother, sia chiamata in causa di rado o sia svilita (La trovo antipatica. È qualcosa di fisico. Qualcosa del suo viso [1]) la figlia, così centrale nel caso di The Father, come se il personaggio della madre, Anne, vedesse in lei ciò che è stato e che non può essere più (il filosofo Byung Chul Han parla, a proposito della neo-depressione, come di un lutto senza oggetto: vi è una sorta di disconnessione da sé stessi e dal mondo circostante, senza che vi sia però una vera e propria perdita oggettuale).

Sono rapporti in ogni caso intricati, quelli creati da Florian Zeller, all’interno dei quali le figure e le relazioni si duplicano e si sfiorano le une con le altre: in The Son, il padre è anche un figlio (ed è interessante che a interpretare il secondo padre sia stato scelto proprio quel padre, Anthony Hopkins, il cui nome è ancora una volta Anthony). Il suo nome filmico è Peter, ma nella traduzione inglese del dramma si chiamava Pierre, come il personaggio del marito in The Mother. Indicati coi nomi propri tra parentesi, come dramatis personae, nelle battute divenivano ruoli generici: the mother, the father, the son ecc. Al tempo stesso la madre di The Son, Laura Dern, qui Kate, ma Anne nella versione inglese del dramma, donna sospesa tra la calma apparente, a uso e consumo del figlio, e la frustrazione per la fine del suo matrimonio, potrebbe sicuramente avere punti in comune con l’altra Anne. Ci si potrebbe spingere in un’affermazione analoga addirittura per la nuova compagna del padre di Nicolas (il nome del figlio, in The Mother, è di nuovo Nicolas), Sofia/Beth, già insofferente rispetto alla propria esistenza, lasciata spesso da sola a crescere il piccolo Theodore. E Anne è pure il personaggio di Olivia Colman in The Father. Insomma: sono storie separate, sì, mai realmente interdipendenti, ma è abbastanza innegabile che il drammaturgo abbia voluto stabilire un dialogo (in)visibile tra di loro, una sorta di corrispondenza di dolorosi sensi domestici. Per esempio, il Nicolas di The Son potrebbe/avrebbe potuto pensare di suo padre ciò che sostiene Anne in The Mother oppure Pierre/Peter avrebbe potuto temerlo ed esorcizzarne il rischio: Mi ha detto che ti ha sempre considerato un modello al contrario. Ovviamente, lui è un artista. [2]
Eppure c’è qualcosa che, nello Zeller cinematografico, finisce per sopire conflitti, latenti o slatentizzati giocoforza, che nella forma del teatro – linguistica e performativa – avevano trovato adeguata collocazione. Avveniva in The Father, ma ancora di più in questo lavoro, magari proprio perché il dramma interiore di Nicolas, esplicitato, ma non definito, nel disagio per la separazione dei genitori, è un dolore che si nutre di silenzi, di scarti fra il senso reale e quello simulato, scarti che il regista ri-costruisce, anche attraverso metafore oniriche e simbolismi, ma che non sempre sa cogliere appieno, nel loro portato di sofferenza. Zeller imbastisce un paio di buone sequenze, quelle più ordinarie, dalle quali emerge, tanto l'inadeguatezza delle figure parentali (positive, ma distratte o incapaci, per proprie umane ferite, di sostenerne altre), quanto la sfuggevole natura del disturbo dell'umore, a volte esplosivo, altre sopito, quasi trasparente, quasi assente. Poi è come se avesse paura di portare alle estreme conseguenze – non intendo conseguenze materiali, ma proprio epistemologiche – la propria riflessione.
È insomma come se si optasse per un addomesticamento drammatico, che tra l’altro – e in questi casi la comparazione è un’utile bussola – si ravvisa fin dal carico emozionale della didascalia o delle prime battute, se si confrontano il play originario e la sceneggiatura, scritta a quattro mani con Hampton.

Nel dramma leggiamo:
Appartamento di Pierre. Anne è in piedi di fronte a lui. Sembra teso.
PIERRE: Che ci fai qui?
Anne non risponde.
Anne, sto parlando con te. [3]

Nella sceneggiatura (nel montaggio finale c’è una piccola differenza, subito dopo l’intro) abbiamo invece:
Una voce femminile, che canta una ninna nanna [...] Una giostrina colorata gira sopra una culla. Beth guarda il bambino dormire. Sorride. All'improvviso Peter appare sulla porta. Osserva Beth e il loro bambino, Theo. Beth si rende conto che Peter è lì. [4]

Al conflitto, o qualcosa che comunque rischia di creare frizioni importanti tra i personaggi, ognuno con un proprio obiettivo, non di rado divergente da quello degli altri, viene anteposta una scena di complicità romantica, quasi lo si volesse smussare nella tenerezza della ninna nanna iniziale. Sono piccoli dettagli che possono però suggerirci la ragione per la quale la domanda che percorre tutto il film, con un andamento martellante, ma in definitiva troppo poco incisivo – what’s going on? – resta a fluttuare sopra le vite del quartetto.
In questa storia di padri e di figli, al plurale (la figura della madre è più sfumata in un’assenza presente), il dolore è innominabile e non circoscrivibile a una relazione stretta di causa-effetto; ciò nondimeno di fronte a una sorta di variazione della cosiddetta pistola di Cechov, si fa fatica a non sgranare gli occhi. L'epilogo non era inatteso, s’intende, pensando anche a un certo reiterato simbolismo, non così raffinato, rappresentato dalla centrifuga della lavatrice, perennemente in funzione: una mente, quella di Nicolas, che frulla senza sosta. Era però lecito sperare che lo scivolamento nella tragedia non avesse bisogno, dopo tutto quel parlare, del mero ricorso all'artificio.

[1] I find her unsympathetic […] It’s something physical. Something about her face.

[2] He told me he’s always taken you as an anti-role model. Obviously, he’s an artist.

[3] Pierre’s flat. Anne stands facing him. He looks tense.
PIERRE: What are you doing here?

Anne doesn’t answer.
Anne, I’m speaking to you.

[4]  A woman’s voice, singing a lullaby. […] A multi-colored mobile turns above a cradle. Beth watches the baby sleeping. She’s smiling. Suddenly Peter appears in the doorway. He watches Beth and their baby, Theo. Beth realizes Peter is there.

Le traduzioni sono mie.